Inaugurato a 30 anni dalla posa della prima pietra, visita al nuovo Museo Interdisciplinare Regionale (MuMe), dalle grandi ambizioni ma latitante nell’architettura e nell’allestimento. Eppure le premesse erano diverse…
MESSINA. Il 17 giugno 2017 passerà alla storia come il giorno che la comunità messinese attendeva da un secolo, da quando cioè, all’indomani del tragico sisma del 1908 si era imposta come un’urgenza la necessità di agganciare con le tenaglie forti di una narrazione museale la trama di una memoria che, si capì subito, non poteva restare sepolta sotto le macerie, insieme a uomini e opere d’arte testimoni della trascorsa magnificenza della città. E se anche il nuovo Museo Interdisciplinare Regionale (MuMe) con la sua struttura e le soluzioni museografiche rivela tutti i segni del suo essere stato inaugurato a trent’anni dalla posa della prima pietra, e ancora molto resta da fare, importante è avere aperto finalmente alla città il museo che col suo ampio parco di oltre 17.000 mq s’impone come uno dei più grandi del Meridione.
I punti di forza
Le dimensioni dell’edificio museale sono quadruplicate rispetto alla vecchia sede dell’ex Filanda Barbera, già Mellinghoff, inaugurata nel 1984 e riconvertita a spazio per esposizioni: 4.476 mq contro 1.100 mq.
Altro punto a favore e che lo differenzia dagli altri musei meridionali sul podio (Capodimonte, Palazzo Arnone e il Museo Nazionale di Reggio Calabria), è l’interdisciplinarità, che accosta una delle più importanti collezioni pittoriche e scultoree siciliane, con gli Antonello da Messina («Polittico di San Gregorio» e la tavoletta bifronte con un «Ecce Homo» e una «Madonna con Bambino e francescano»), Alibrandi, Montorsoli, Rodriguez e i due Caravaggio («Resurrezione di Lazzaro» e l’«Adorazione dei Pastori»), alle collezioni archeologiche, numismatiche, di arti decorative e arredi sacri: 750 opere, il triplo di quelle esposte nella precedente sede.
L’ordinamento museologico
Secondo un ordinamento storicistico integrato definito tra gli anni ’80 e il 2000 da Francesca Campagna Cicala (a cui si deve pure quello di un altro dei più importanti musei regionali, la Galleria Bellomo di Siracusa) e rivisitato e aggiornato alle nuove acquisizioni di materiali e degli studi dai successivi direttori – Gioacchino Barbera, Giovanna Bacci e l’attuale direttrice Caterina Di Giacomo, che ha impresso una decisiva accelerazione amministrativa in direzione dell’apertura – il patrimonio del museo è costituito dai materiali storico artistici recuperati tra le macerie del terremoto e dalle collezioni dell’ottocentesco Museo Civico Peloritano. È ordinato in otto sezioni, dal Medioevo al Primo Novecento, e si conclude simbolicamente con un dipinto di Salvatore De Pasquale del 1904, a ridosso del sisma. Di queste, la sezione Archeologica e l’Ala Nord erano state aperte in anteprima il 9 dicembre scorso. I depositi sono visitabili. Resta da allestire la Sala del Tesoro.
L’architettura: un progetto senza padri
L’edificio è costituito da tre corpi a pianta quadrata, sfalsati tra loro, conclusi all’estremità settentrionale da grandi corpi poligonali altri circa 12 metri. All’interno, due dei corpi del museo (B e C) sono caratterizzati da un nucleo centrale entro cui si snoda una rampa inclinata che pone in comunicazione i tre livelli interni (due per spazi espositivi e uno interrato per magazzini, servizi e ambienti di lavoro), e il terzo (A) si articola intorno all’ambiente a doppia altezza alla cui base è situato lo scavo della cripta della chiesa del SS. Salvatore, cinquecentesco monastero basiliano. All’esterno, dove erano già stati dislocati i reperti lapidei, tra il 1998 e il 2005 sono stati rimontati i portali di alcune chiese distrutte dal sisma e le due fontane superstiti dei «quattro canti» messinesi. Costruito tra il 1985 e il 1994, oggetto fino al 2009 di interventi frammentari condizionati dall’esiguità delle risorse, il museo ha visto avviare il definitivo progetto d’integrazione, adeguamento e modifica delle dotazioni e degli impianti (1.988.800 euro, fondi europei del Po Fesr 2007-2014) nel marzo 2014, e concludersi nel settembre 2015. In totale dal 1985 ad oggi sono stati spesi oltre 11 milioni di euro, neanche tanti se si considera che il restyling del Museo dei Bronzi di Riace ne è costato il triplo.
Una Ferrari col motore di una Cinquecento
Con le dimensioni, però, crescono anche i problemi legati alla gestione (per il momento, inoltre, niente servizi al pubblico, caffetteria, bookshop, etc.). Le unità di personale qualificato restano invariate (oltre alla direttrice, 42 tra storici dell’arte, bibliotecari, funzionari uffici tecnici), aumentate solo quelle per giardinaggio e pulizie (63), custodi insufficienti. Nei primi mesi dell’anno, a causa dell’esercizio provvisorio del bilancio regionale, gli euro in cassa erano pari a zero, mentre è solo dal 15 maggio scorso che sono stati stanziati appena 2.000 euro, «per far fronte alle forniture urgenti e improcrastinabili», si legge nel decreto, ma per l’intero Polo museale, che comprende, oltre al museo di Messina, quello di Mistretta, il sito Halaesa Arconidea, il Castello Bauso a Villafranca, Villa De Pasquale a Messina e la chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Casalvecchio. Duemila euro, come per tutti gli altri Poli museali regionali, senza distinzioni. Computer, stampante, carta, toner per il suo ufficio la direttrice Di Giacomo se li è comprati con i suoi soldi. Una circolare dello scorso aprile stabilisce (per tutti i siti) che gli introiti derivanti dalla vendita dei biglietti, che prima finivano interamente nel calderone indistinto del Bilancio regionale, restino per il 30% all’Assessorato Beni culturali e identità siciliana: una piccola boccata d’ossigeno, anche se ancora non gestita direttamente dall’istituto, senza la mediazione centrale. L’autonomia finanziaria è, dunque, ancora lontana, sebbene il museo possieda i numeri per vedersi riconosciuto lo status di «Grande Museo» (e quindi l’autonomia), sulla scorta di quello accordato alle maggiori istituzioni museali statali.
Il fronte di maggiore criticità finanziaria è costituito dal capitolo manutenzione. «Le emergenze di natura tecnica», ci ha spiegato l’ultimo progettista e direttore dei lavori, Gianfranco Anastasio, impegnato come il predecessore Antonio Virgilio, a mettere le pezze all’originario progetto Basile, De Fiore e Manganaro del 1983 che faceva acqua da tutte le parti, «sono state risolte da interventi straordinari che richiederanno comunque una continua e accurata manutenzione periodica, in attesa di soluzioni tecnologiche e architettoniche da noi già proposte, che possano consentire al museo di abbattere costi di gestione, manutenzione e consumo energetico».
Eppure in principio fu Scarpa…
Quello della manutenzione, per la vicinanza del mare, era un problema che preoccupava anche Carlo Scarpa. Già, perché la Regione aveva pronto un progetto di massima, su incarico dalla Cassa per il Mezzogiorno, firmato nel 1974 da uno dei massimi esponenti della museografia italiana del dopoguerra, insieme all’architetto messinese Roberto Calandra, suo amico sin dall’allestimento della mostra di Antonello da Messina nel 1953 nella stessa città dello Stretto. Il progetto era impostato come organismo unico, a percorso continuo, dai contorni irregolari e molto aperto verso il giardino intorno e collegato all’ex Filanda. In un secondo momento Scarpa fu tentato dall’abbandonarlo e ritornare all’idea della pluralità dei piccoli padiglioni che aveva accennato in taluni schizzi preliminari. Solo che l’anno dopo, col trasferimento delle competenze esclusive in materia di Beni culturali dallo Stato alla Regione, si pensò bene di dare subito una delle peggiori prove dell’autonomia, scartando il progetto Scarpa/Calandra in favore dell’appalto-concorso con cui sarebbe stata l’impresa vincitrice a decidere a chi assegnare la progettazione. Dalla giuria era stata tenuta fuori l’allora direttrice Campagna Cicala, che ricorda come «un’incredibile occasione persa» il confronto che ebbe con l’architetto veneto. Ma il criterio espositivo da lei individuato, la sua «idea di museo» è quella che ancora oggi si può leggere visitando le sale. E se Calandra testimoniava di questo fondamentale dialogo («il raggruppamento per periodi storici e non per tipologie, ci persuadeva molto anche per le speciali caratteristiche dei materiali da esporre nel museo, ricco di reperti architettonici provenienti da monumenti abbattuti dal terremoto del 1908»), con i nuovi progettisti si sarebbe interrotto del tutto.
La memoria dimenticata
«Si presentarono nel mio ufficio», ricorda Campagna Cicala, «solo qualche giorno prima che la struttura ci venisse consegnata. A cose fatte. Mi veniva da piangere, era un edificio buono per farci un supermercato». Noi siamo andati a cercarla questa direttrice che dialogò con Scarpa. «L’impressione è che non sia stata chiarita l’idea del museo», ci ha detto con una punta di rammarico. E anche oggi, a parte le citazioni di rito al taglio del nastro, appare incredibile che proprio nel giorno della memoria cittadina ritrovata ci si dimentichi (nessun cenno sulla stampa e nei discorsi ufficiali) di questa fase in cui fu fondato e in larga parte definito l’attuale ordinamento scientifico. «Poco o nulla si è detto dell’ordinamento, del metodo cioè adottato nel percorso espositivo, che invece costituisce la realizzazione di un’idea progettuale, di un “progetto” di museo, di cui rivendico orgogliosamente l’appartenenza, consapevolmente meditato per offrire al visitatore l’esperienza di un percorso, quasi un racconto, suggerito dal susseguirsi delle opere ordinate secondo un criterio di matrice storicistica certo, ma allargato alla contestualità delle diverse manifestazioni artistiche, tale da poter restituire in una proiezione virtuale quella continuità che Federico Zeri, nell’introduzione al catalogo dell’esposizione museale già da me curata nei locali dell’ex filanda Barbera, definiva “La testimonianza di una lunga vicenda di cultura e di arte che si è svolta con una straordinaria successione di apporti, di accrescimenti, di soluzioni, lungo molti secoli, anzi, per più di un millennio. È una vicenda che riflette la storia della città”, oggi cancellata nella sua consistenza fisica di cui rimangono tracce lacunose nell’immensa mole di materiali sottratti alle macerie del terremoto e alle demolizioni e depredazioni che ne furono conseguenza. Un ritorno della memoria se si vuole, che dia alla contemporaneità il senso della sua storia e contribuisca a superare lo scarto storico riallacciandone la sopravvivenza ad un’immagine virtuale di città, sia pure frammentaria, ma incardinata comunque sul tessuto omogeneo e continuo che la città aveva consegnato alla storia. Ecco la mia idea di museo».
L’allestimento, questo sconosciuto?
La traduzione museografica di quell’«idea» ha, poi, dovuto fare i conti con un museo incredibilmente concepito per negare le sue collezioni: un open space senza pareti per l’esposizione delle opere d’arte, off-limits per le grandi tele del Settecento, che di qui non passavano e di là non entravano.
Al terzo livello segni evidenti di questo allestimento forzato, sono, per esempio, una tela che «scivola» in basso nel vuoto della rampa (fig. 1) e l’altra centinata che tocca il solaio superiore (fig. 2). «Il pavimento», ricorda l’architetto Virgilio, «era stato coperto da una moquette color arancio, le sale più ampie erano state listate a strisce alterne con rivestimento in intonaco bianco e finti mattoni; pilastri e travi in cemento a vista caratterizzavano questi ambienti intervenendo negativamente su quell’atmosfera di sobrietà che le opere di un museo richiedono. E quindi in prima ipotesi la moquette venne sostituita da pietra lavica, le pareti ebbero un fondo bianco, i pilastri dalla forma stellare diventarono cilindrici e acquisirono colore in relazione e in accordo con le opere esposte, le travi vennero nascoste da un controsoffitto praticabile che ha permesso di governare le luci dall’alto, e furono costruite in vari punti pareti su pilastri perimetrali che altrimenti avrebbero impedito l’esposizione di molte opere». Per Virgilio, nel nuovo museo si sarebbe dovuto pensare a una sezione dedicata al racconto della complessità dell’iter progettuale, con i disegni da lui realizzati e il plastico del progetto Scarpa-Calandra. Un racconto, aggiungiamo, che si potrebbe immaginare a partire dal primo progetto del Valenti del 1917.
A Virgilio si deve la ripresa di alcune intuizioni scarpiane, citate come excerpta nel nuovo percorso museografico: la vasca all’esterno sembra un ricordo del canale d’acqua degli edifici arabi palermitani come la Zisa su cui Scarpa meditava a Messina; il «dialogo» tra le opere nelle sale e gli elementi architettonici e monumentali e i frammenti lapidei all’esterno, visibili dalle ampie aperture della struttura museale, così da percepire unitariamente le tre forme d’arte coeve e ricomporre la dimensione omogenea del contesto originario (in tal senso sarebbe utile, però, che le didascalie all’interno accennassero pure agli elementi architettonici esterni); il fulcro dell’organizzazione spaziale del museo intorno al momento di massima fioritura della arti a Messina, col gruppo marmoreo manierista del «Nettuno» e della «Scilla» (su base antisismica). Qui Virgilio ha un’intuizione che supera, addirittura, quella originaria: se Scarpa aveva immaginato le due sculture al centro di un grande lucernario, vicino a tre absidi, per richiamare il volume cavo di una cattedrale, il messinese concepisce il vuoto vertiginoso di una spazialità che suggerisce lo snodo urbano di una piazza: questa «Piazza manierista» è, infatti, ben più coerente con la provenienza del gruppo scultoreo, non da una chiesa ma dalla monumentale fontana eretta dal michelangiolesco Montorsoli nel 1557 alla Marina. Purtroppo, la soluzione museografica d’effetto viene, però, indebolita e contraddetta dal forzato incastonamento di un brano lapideo (seppur sempre montorsoliano) proveniente da un perduto monumento funebre, ossia da un interno chiesastico. Ci si trova, allora, in una chiesa o in una piazza? Non c’era altra soluzione in un museo al quale proprio gli spazi sono l’unica cosa che non mancano?
Punto debole, poi, l’allestimento proprio dell’artista simbolo del museo, Antonello da Messina. Per creare una corretta spazialità museale a parte per il «Polittico di San Gregorio» lo si è finito per inscatolare in un mini chalet (una cappelletta lignea nell’intenzione del progettista), con la tavoletta bifronte piazzata all’esterno (non così in origine) come un cartello segnaletico, su supporto abbinato, il tutto vagamente in stile anni ’70 (figg. 3 e 4). Accanto, il coup de théâtre del fondale blu elettrico su cui si staglia «La Madonna con bambino» del Laurana (le cui tracce di blu sul manto giustificherebbero la parete shocking) completano la dubbia qualità espositiva raggiunta in questo snodo eppure strategico del museo, che si coglie in pieno dalla finestra «epifanica» (fig. 5) aperta nella rampa da cui dal terzo livello si discende per concludere il percorso. Anche altrove si viene sorpresi da queste pannellature in stucco veneziano dalle cromie accese, estese pure sulla colonna gigante da night club nella Sala dei caravaggeschi (fig. 6). L’effetto parquet in verticale della scatola antonellesca è ripreso altrove, per ritagliare i due nuovi spazi ricavati per la selezione dei fondi antichi e per le icone del ‘600 in stile ancora bizantineggiante. Lo si ritrova anche nella parete all’ingresso (fig. 7), dove è inesistente il concetto di hall come zona di decompressione dalla realtà e di accesso alla «spazialità a parte» museale. E ancora. Suggestivo l’affaccio sulla Sala del Settecento con la Berlina del Senato, ma perché rinunciare agli espedienti allestitivi e poggiarla direttamente sul pavimento, senza una base? Punto forte, invece, l’illuminazione: le opere sono tutte leggibili, pure i due Caravaggio perfettamente illuminati, come è raro poterli vedere (esemplare l’illeggibilità alla monografica a Palazzo Reale a Milano nel 2005-2006).
Conclusioni
Complice la frammentarietà di questa travagliata storia museale, l’impressione complessiva è che non sia stata sviluppata interamente l’identità di un museo nato dalle macerie del terremoto.
Di questa peculiare e forte «personalità museale» sembra essersi dimenticati in questa sofferta attuazione del progetto museologico e museografico, finendo per omologare il museo in riva allo Stretto a tanti altri. Se tutti i musei nascono per esorcizzare la morte, per sottrarre gli oggetti alla vita e al tempo che scorre inesorabile, qui il visitatore avrebbe potuto essere indotto a elaborare il lutto che ha colpito un’intera società. I depositi sono straordinari perché è lì, in quei frammenti d’un immenso patrimonio, che palpita ancora il dramma del sisma che l’ha ferito. Questi depositi, insieme alle cataste di lacerti monumentali e architettonici sulla spianata, sono (sarebbero) molto più entusiasmanti di qualsiasi sala ben ordinata.
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Last modified: 22 Giugno 2017
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