Nei suoi film, Pier Paolo Pasolini ha indagato le vite ai margini, mostrando le condizioni del sottoproletariato e il degrado ambientale in cui viveva
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Più di altri intellettuali italiani, Pier Paolo Pasolini ha saputo sondare il tessuto del Paese in pieno boom economico interpretandone i cambiamenti sociali e culturali, superando la semplice constatazione della condizione presente in una più ampia analisi dei plausibili rischi portati dallo “sviluppo senza progresso” da lui denunciato.
È con il mezzo cinematografico che il regista pone maggiormente l’accento sulla condizione del sottoproletariato e del degradato ambiente in cui vive, in veritieri ritratti di una realtà tendenzialmente taciuta se non nascosta durante la frenetica corsa al benessere. Abbracciando la poetica neorealista, Accattone (1961), Mamma Roma (1962) e La ricotta (1963) si dimostrano un disincantato atto d’amore verso la vita nella periferia romana, dove ancora è possibile rintracciare quella società d’origine contadina che la nuova dimensione consumistica stava però estirpando. «Le borgate […] costituivano una preoccupante cintura attorno alla capitale: […] cancro sociale e urbanistico […] voluto dalla dittatura di Mussolini [che] la guerra e il dopoguerra avevano cronicizzato […]. La nuova democrazia decollava verso il benessere economico, ma quella […] urlante piaga umana, si espandeva sempre più […]»*, escludendo dal processo di modernizzazione in corso il ceto meno abbiente e impossibilitato a partecipare alla rinascita del Paese. Relegato in aree delimitate lontane dal centro urbano, il proletario è dunque abbandonato a se stesso, destinato a un lento e naturale processo di autodistruzione privo com’è d’identità e di una radicata coscienza di classe.
Ai personaggi di questi film, confinati in una sorta di limbo in cui gli atti disumani da loro compiuti non sono che estremi tentativi di sopravvivere giorno per giorno, non resta dunque che la libertà della morte, rottura definitiva con il ruolo di emarginati sociali imposto loro. Che sia voluta o accidentale, la dipartita dei proletari pasoliniani è da intendersi sempre come un’immolazione espiatoria di matrice cristologica, non voluta ma comunque necessaria, le cui vittime sono caricate dei peccati del mondo senza però alcuna speranza di redenzione, né per sé né per gli altri. In Accattone, ad esempio, l’idea è sottolineata dall’accompagnamento musicale de La Passione secondo Matteo di Bach, mentre ne La ricotta Stracci muore sulla croce durante le riprese di un calvario di Cristo, sotto gli occhi della troupe in pausa sul set dedita a svaghi dal gusto blasfemo.
Non stupisce allora la scelta del Materano per Il Vangelo secondo Matteo (1964). Nell’intaccata arcaicità dei luoghi, delle vite e degli abitanti, Pasolini individua difatti l’ultimo baluardo di quella realtà contadina e proletaria resistita al brutale cambiamento urbanistico e sociale imposto dalla civiltà neo-industriale: una salvezza che s’identifica nel messaggio divino, chiara metafora dell’opposizione all’ideologia consumista contemporanea, causa principale – per l’intellettuale – del degrado etico e culturale del Paese.
È con Uccellacci e uccellini (1966) che il regista ribalta la propria considerazione del sottoproletariato, ormai totalmente integrato all’ideologia individualista borghese che pateticamente replica in scala inferiore. Anche lo scenario periferico perde definitivamente la propria natura, facendosi essenzialmente prolungamento in povero del centro abitato, sorta di paesaggio metafisico e lunare in continua estensione senza un preciso ordine, dove l’accumulo e la sovrapposizione diventano la logica non solo urbanistica ma anche ideologica (La Terra vista dalla Luna, 1966). Una grande discarica in cui sono abbandonati rifiuti sia materiali che sociali, come le metaforiche marionette parlanti di Che cosa sono le nuvole? (1967) – interpretate come i due film precedenti da Totò e Ninetto Davoli – una volta che la loro funzione è esaurita: la dura e sconsolata condanna pasoliniana non lascia spazio a equivoci.
Per questo, in Appunti per un film sull’India (1968) e Appunti per un’Orestiade africana (1970), il cineasta volge il suo sguardo al Terzo mondo visto ormai come unica salvezza per la società moderna. La periferia dell’Occidente, alle prese a quel tempo con la rinascita post-coloniale e la conseguente affermazione di una nuova identità nazionale, diventa il modello ideale d’interazione con il presente: un rapporto che, nel rispetto della propria tradizione, tenga conto del passato come dei cambiamenti sociali in atto, nella prospettiva di un futuro da costruire e non più da subire.
Immagine di copertina: fotogramma di “Mamma Roma” (1962)
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Last modified: 28 Marzo 2017
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