Due libri intensi, riccamente illustrati, trattano figure storiche del progetto, nei loro riferimenti, anche intimi e personali
Affinità elettive, controcampi inattesi, risonanze sottili: interrogare il rapporto fra architettura e arte significa spesso muoversi su un terreno di relazioni implicite, di legami non dichiarati che si rivelano solo accettando di sostare nelle zone intermedie del progetto. Due recenti pubblicazioni — “Mies e Klee” di Dario Costi (LetteraVentidue, 2025, 160 pagine, 22 €), e “Architettura e arte. Negli archivi di BBPR, Dardi, Monaco e Luccichenti, Moretti”, a cura di Luca Galofaro (LetteraVentidue, 2024, 200 pagine, 29 €) — affrontano questo nodo attraverso dispositivi diversi: la ricostruzione analitica di un paesaggio di riferimenti intimi, nel caso di Mies e Klee, e l’esplorazione curatoriale degli archivi di alcuni protagonisti del Novecento italiano, nel volume di Galofaro.
Mies van der Rohe e Paul Klee: traiettorie e geometrie
Doppio necessario, vite parallele (Plutarco docet), controparte, sottili nessi, possibili risonanze, nuove geometrie di collegamenti. Ci sono tutte le formule complesse del rapporto tra due entità nel libro di Dario Costi, edito da LetteraVentidue. I due poli della connessione, umana e culturale, sono Mies van der Rohe e Paul Klee. L’elegante e ricca pubblicazione (moltissime immagini a colori, copertina color oro, grafica chiara con un eccesso di orgogliosa raffinatezza nei titoli) è il frutto di un’intensa ricerca, anche di archivio.
Un percorso che muove da un interesse personale dell’autore, che Costi sintetizza nel prologo: “C’è una questione che non si può analizzare nell’esperienza progettuale degli architetti. È la distanza solo appena esplorabile tra la definizione di un tema con la sua visione del mondo e le ragioni che lo hanno determinato, in molti casi addirittura sconosciute all’autore. È uno spazio segreto da non violare che si può solo avvicinare, un pezzo fondamentale del senso delle cose che va solo osservato con attenzione e trattato con il massimo rispetto, senza pretese di certezze”.
In questa area contesa, di rimandi segreti, sta l’area di movimento di questo libro. Articola in 16 brevi capitoli un tentativo originale, non banale, per nulla scontato nei suoi esiti: comprendere e comunicare il paesaggio di riferimenti culturali di Mies. Un background in cui hanno parte importante i 26 quadri di Klee, per la prima volta presentati e impaginati in ordine di acquisizione. “Mi sembrava ovvio – scrive Costi – che la predilezione di Mies per Klee non potesse essere solo quella di un collezionista d’arte. Mi sembrava interessante capire invece come quella preferenza aveva influenzato la sua opera”.
Il testo, colto e strutturato grazie alle quasi 200 note in conclusione, procede per tentativi e proposte di interpretazioni. I rapporti tra opere architettoniche e artistiche vengono vivisezionati e continuamente riarticolati a costruire interpretazioni e letture che vanno oltre il consolidato, suggerendo nuovi significati.
Ne emergono traiettorie diverse, alcune si sovrappongono e confliggono tra di loro, in cui il Mies van der Rohe autore – con la “ricchezza delle sue contraddizioni”, come scrive Giovanni Leoni nell’apertura – viene rappresentato in una pluralità di sfondi e di contesti. Dove c’è però una linea chiara, tracciata in chiusura da Renato Capozzi: “È per tutto questo che le opere di Klee sono per Mies la essenziale e ineludibile controparte secolare, mondana, fluente e vitale del suo spazio assoluto: nessuna mimesi, nessuna allitterazione semmai una nobile translatio, la stessa che tanto interessava Aldo Rossi”.
Lo spazio conteso del progetto: archivi e relazioni
Figure doppie, controcampi necessari, geometrie di rimandi: il volume curato da Luca Galofaro sembra muoversi in quell’area intermedia in cui le relazioni tra architettura e arte non sono mai lineari né risolte. “Architettura e arte. Negli archivi di BBPR, Dardi, Monaco e Luccichenti, Moretti” rinuncia a ogni intento celebrativo per concentrarsi sull’indagine di uno “spazio conteso”, in cui la documentazione archivistica — lettere, schizzi, modelli, appunti — non ricompone una narrazione univoca, ma moltiplica le letture possibili della pratica progettuale dei protagonisti.
L’elegante volume, frutto del lavoro curatoriale realizzato per la mostra del Maxxi “Architetture a regola d’arte”, costruisce un mosaico fitto attorno a BBPR, Costantino Dardi, Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, Luigi Moretti, ciascuno di loro restituito non tanto come autore isolato, quanto come nodo di una rete culturale in cui architettura e arti visive si sfiorano, dialogano e talvolta si contraddicono. È in questo quadro che Galofaro mette a punto un dispositivo raffinato: non la celebrazione degli archivi, ma la loro esposizione come campo di divergenze, sovrapposizioni, punti ciechi e aperture inattese proprie dell’atto progettuale.
Nell’opera corale dei BBPR, il rapporto con l’arte si configura come una forma di impegno civile: dagli allestimenti museali alla monumentalità del dopoguerra, emerge un continuo tentativo di articolare spazio, memoria e rappresentazione. Le carte di Dardi restituiscono, invece, il profilo di un architetto che utilizza la linea come strumento concettuale, prossimo alla pratica artistica, dove l’allestimento museografico diventa un modo di pensare, prima ancora che di esporre.
Il capitolo dedicato a Monaco e Luccichenti, con la loro modernità romana e mediterranea, rivela una sensibilità scenografica in cui l’architettura si apre naturalmente alla luce nella costruzione di ambienti come sequenze spaziali cariche di teatralità. Infine, la figura eccentrica di Moretti che emerge come la controparte teorica del gruppo: l’autore che piega la forma architettonica verso una tensione quasi metafisica, ricomponendo nella complessità della sua opera le possibilità ultime dell’architettura e spingendo il progetto oltre i confini disciplinari, verso una riflessione radicale sulla composizione.
Il volume, scandito da contributi critici misurati e da un apparato iconografico imponente, non propone risposte univoche. Al contrario, rende evidente come la relazione tra arte e architettura sia fatta di oscillazioni, spostamenti, sovrapposizioni parziali. L’archivio, lungi dall’essere deposito neutro, si configura come luogo vivo, quasi performativo, in cui il progetto lascia tracce che non chiudono ma moltiplicano le possibilità interpretative. Nel libro emergono traiettorie che si intersecano e talvolta entrano in conflitto, senza mai perdere la percezione di una linea complessiva: la consapevolezza che l’atto progettuale non è mai un esercizio puramente tecnico, ma piuttosto un processo complesso in cui l’arte, nelle sue forme più diverse, agisce come controparte critica.
Galofaro governa questo materiale con precisione e misura. Il risultato è un testo capace di mostrare come l’arte dell’architettura sia, prima di tutto, un processo relazionale, un continuo scambio di energie fra forme, gesti, linguaggi.






















