La scomparsa di un pioniere dell’architettura della cooperazione è l’occasione per ragionare sulle istanze di un impegno e per dare uno sguardo alla realtà africana
L’architettura africana, il rapporto tra tradizione (spesso dimenticata) e modernità (talvolta mitizzata), sono oggi al centro dell’attenzione internazionale da parte di studiosi e progettisti, complice la vitalità e creatività di un continente ricco di risorse naturali, con una popolazione che supera il miliardo di persone, giovanissima e in rapido e costante aumento, e in cui i tassi di crescita in molti casi raggiungono il 5 e il 10%, il doppio rispetto al decennio scorso. Un insieme di condizioni che hanno contribuito alla formazione di una classe media, alla creazione di nuovi mercati di beni e servizi, a un incremento degli investimenti esteri nel continente; un quadro in cui tuttavia la povertà, a causa degli alti livelli di diseguaglianza, non si riduce allo stesso ritmo.
Venendo all’architettura, ciò che appare evidente è il mosaico di esperienze a diversa scala che oggi caratterizza il continente africano, tanto in aree urbane che nei villaggi: dall’Afro-futurismo – che sta costruendo una nuova narrativa intorno all’Africa – ad approcci che vanno nella direzione di un rinnovamento della tradizione africana, ibridando materiali locali e tecnologie avanzate, vedasi i pluri-premiati Francis Kéré con le scuole di Gando in Burkina Faso, Kunle Adejemi, fondatore dello studio NLÉ, con le architetture galleggianti a Makoko nella periferia di Lagos, Peter Reich Architects con il Mapungubwe Interpretation Centre in Sudafrica o Christian Benimana, di Mass Design Group, fondatore dell’African Design Centre, un progetto formativo fondato sull’apprendistato che aspira ad essere il “Bauhaus africano”.
Tra gli architetti che hanno contribuito a costruire attenzione e sensibilità verso un’architettura in grado di portare bellezza e qualità nell’abitare e generare impatto sociale – se pur in condizioni di scarsità – attraverso la valorizzazione delle risorse locali, umane e naturali, è doveroso ricordare Fabrizio Carola, scomparso i primi giorni del nuovo anno. Progettista e costruttore, architetto nomade tra Europa e Africa, per molti di noi Carola è stato un collega e un maestro che ha saputo coniugare ricerca e azione, lo studio dei principi e delle tecnologie costruttive basate sulla tradizione, l’ascolto e l’osservazione dei luoghi e la sperimentazione di soluzioni innovative, spesso visionarie.
Carola proviene da una nota famiglia di costruttori di Napoli, città da cui racconta di esser fuggito, a soli diciotto anni – vendendo la vespa – per trasferirsi in Belgio e studiare a l’Institut d’architecture de La Cambre, oggi parte dell’Universitè Libre di Bruxelles, scuola fondata da Henry van de Velde sui principi del Bauhaus. Il percorso formativo in accademia, nell’ambito dell’impresa famigliare e la sua stessa natura di persona curiosa, concreta e ribelle, lo porteranno lungo tutta la vita a prediligere un approccio orientato alla sperimentazione, al “fare”. Come lui stesso amava dire: “L’architettura non mi interessa, mi annoia profondamente, a me piace farla”.
A trent’anni partecipa al progetto di ricostruzione dell’ospedale di Agadir, in Marocco, per conto del governo; nello stesso periodo lavora in Italia e in Belgio. Negli anni ’70 si trasferisce in Africa: in Mali si avvicina ai materiali e alle tecniche costruttive locali; apprende il lavoro di Hassan Fathy e dell’ADAUA – Association pour le Developpement d’une Architecture et d’un Urbanisme Africain; conosce l’architettura in terra, la volta nubiana, realizzata con il compasso, che gli consente di costruire strutture autoportanti senza il sostegno di centine, dunque con un risparmio significativo di materiale e un uso più razionale delle risorse naturali; ne studia la geometria, le modifica, spinge al limite le possibilità offerte dalla tecnologia costruttiva fino ad ottenere nuove forme, come la ben nota cupola ogivale, presente in tante sue opere.
Nel progetto dell’Ospedale regionale di Kaédi in Mauritania (1981-1984) – opera insignita dell’Aga Khan Award for Architecture nel 1995 – c’è l’ispirazione alla tradizione costruttiva africana, nonché tutto l’impegno di Carola per un’architettura attenta alle tradizioni locali, sebbene mai predeterminata; in empatia con la natura, grazie all’uso sapiente di materiali e forme; appropriata e appropriabile; in contrasto con la diffusione di modelli esogeni, inadatti al clima e al contesto, spesso generatori di spazi di bassa qualità costruttiva e abitativa. Oltre a Kaédi, realizza altri progetti in Africa sub-sahariana, tra cui il Centro di medicina tradizionale e l’Hotel Le Kambary a Bandiagara, il mercato centrale e il Centro di formazione per le tecnologie da costruzione a Mopti, la moschea e la scuola a Gao, i mercati di Hamadallaye e Medine Herb a Bamako.
Nel 1987 Carola fonda a Napoli l’Associazione NEA (Napoli Europa Africa), con l’obiettivo di promuovere lo scambio di conoscenze ed esperienze tra Europa ed Africa. Con NEA, a partire dal 1998, avvia a San Potito Sannitico (Caserta) su un terreno di 16.000 mq offerto dalla Chiesa in comodato per trent’anni, il progetto “Neagorà sette piazze. Villaggio per sperimentare un’ipotesi di futuro”. Si tratta di un cantiere in autocostruzione, un workshop permanente aperto alla partecipazione giovani architetti di tutto il mondo, come occasione di formazione e ricerca per nuove tipologie abitative e stili di vita. Nel 2008 è insignito del Global Award for Sustainable Architecture a Parigi e nel 2011 del premio Vassilis Sgoutas, attribuito dall’Unione internazionale degli architetti (UIA) a progettisti impegnati nella realizzazione di opere in luoghi in condizioni di scarsità, volte a migliorare la qualità di vita delle comunità più svantaggiate, seguendo i principi di sostenibilità.
Per ricordarlo mi piace citare le parole da lui stesso pronunciate in occasione di un’intervista per l’inchiesta “Architettura e Cooperazione” [pubblicata in inserto cartaceo da questa testata nel giugno 2012; qui l’introduzione dell’autrice]: «L’ingrediente principale del mio lavoro è la libertà. Per progettare ho bisogno di tre tipi di libertà: quella che mi concede il cliente, quella che mi concede l’autorità e quella che io concedo a me stesso. Lavorando in Africa ho potuto beneficiare delle tre libertà ed essere pienamente responsabile (nel bene e nel male) delle mie opere. Un’altra componente indispensabile è il rispetto: rispetto per coloro che usufruiranno della mia architettura. Il rispetto mi impedisce di abusare della libertà».
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Last modified: 30 Gennaio 2019
[…] stato inoltre riconosciuto un premio alla memoria all’opera di Fabrizio Carola(1931-2019), architetto poliedrico nell’ambiente napoletano del Novecento, con un’attitudine […]