Prosegue, con un’intervista a Paolo Perulli (docente di Sociologia economica dell’Università del Piemonte Orientale), la pubblicazione degli abstract del libro Expo dopo Expo. Progettare Milano oltre il 2015 (a cura del Master Architettura Paesaggio, che ha lanciato una campagna di crowdfunding con l’obiettivo di stampare copie cartacee, mentre è disponibile l’ebook)
Dopo un lungo e sofferto processo Expo è giunta all’epilogo. Quale bilancio per la città si può trarre? Quali gli indotti sul territorio?
È evidente che c’è stata una crescita costante di interesse, che la struttura ha retto complessivamente e che il bilancio è sostanzialmente positivo. Sull’indotto nel senso tecnico, cioè su cosa abbia prodotto dal punto di vista dell’economia urbana, è presto per dirlo, perché esiste un indotto diretto e uno indiretto. In questo caso siamo di fronte a fenomeni temporanei che si concludono sostanzialmente con l’evento stesso e ce ne sono altri che si protraggono ulteriormente. È abbastanza prematuro definire oggi un bilancio complessivo. Mentre il tema importante è quello del “dopo”.
“La città come impresa” sta rischiando di perdere di vista la propria missione sociale e integrativa. Come possiamo collocare l’esperienza di Expo? Poteva essere un fattore utile a tale scopo?
Bisogna chiarire che cosa si intende per missione sociale. Se si pensa ad un aumento della coesione e integrazione sociale, allora non è questo l’evento che favorisce processi del genere, a meno che non sia espressamente finalizzato a tale scopo. Per esempio a Londra nel 2012 si è tentato di intervenire, al di là della riuscita o meno, con una localizzazione delle attrezzature olimpiche proprio nell’area est della città, da sempre sfavorita. Non è certamente il caso di Milano. Non mi pare che il bilancio debba essere posto in questi termini. Servirebbero indicatori completamente diversi. Per esempio: la dimensione del parco housing sociale della città, piuttosto che di servizi per le quote meno favorite della popolazione. Certamente l’operazione Expo non è andata in quella direzione. Il bilancio invece dovrebbe essere fatto nei termini dell’innovazione urbana, e cioè se questo evento ha favorito processi di innovazione. Naturalmente tra innovazione e integrazione esiste una continua tensione reciproca. Non è scontato che processi innovativi, favoriti anche da eventi come Expo, si concilino con un aumento della coesione sociale e dell’integrazione sociale della città. Anzi, in generale non è in questa direzione che vanno le cose.
Secondo lei si è scelta consapevolmente l’organizzazione di Expo al fine di indurre un effetto innovativo per la città?
Sì, chiaramente. Ogni evento del genere produce un concentrato investimento di risorse prevalentemente pubbliche e in parte private, con tempi e modalità che sfuggono completamente al modello del tipo “democratico-rappresentativo”. La città si trova in tempi concentrati a disporre di grandi risorse economiche senza che i meccanismi, le lungaggini, i processi negoziali e deliberativi tipici della democrazia rappresentativa siano chiamati in gioco. Quindi tali risorse seguono un percorso completamente diverso. Anche Milano ha utilizzato tale opportunità ricevendo in eredità infrastrutture e servizi realizzati in modalità che non erano neppure pensabili se non con un evento che costringesse a processi decisionali attuativi di questo tipo.
Ritiene quindi che l’Expo abbia prodotto una crescita complessiva della città?
Certamente. È aumentata la dotazione di capitale fisso, di infrastrutture anche per la mobilità, c’è un’area nuova da mettere in gioco per il futuro della città e si rilevano “n” effetti moltiplicatori che sono ancora da valutare ma che in linea di massima dovrebbero aver prodotto ulteriormente un tessuto disponibile a processi di innovazione. L’organizzazione di un tale evento genera una forte domanda di servizi ICT (Information and Communications Technology), di incoming dovuto all’arrivo di visitatori…
Negli anni novanta si stava avviando un processo istituzionale di delega verso il basso, attraverso la nomina diretta dei sindaci, che si è via via arrestato con una progressiva riproduzione di un neo-centralismo regionale. Come si può intendere in maniera innovativa la governance per l’area metropolitana di Milano?
La mia idea è che si dovrebbe puntare verso un “contratto urbano” in cui entrano in gioco almeno tre livelli di governance: nazionale, regionale e locale. L’Expo potrebbe aver aiutato, almeno dal punto di vista relazionale, una dimensione di questo tipo perché i livelli nazionale e regionale sono stati parte attiva, mentre il governo locale è stato protagonista. Il contratto urbano a cui penso dovrebbe reggersi su questo primo pilastro che dovrebbe diventare permanente, non quindi traguardato come temo alla gestione del solo evento. Deve sussistere una forma permanente di governance che comprenda tutti e tre i livelli. Tale pilastro è esattamente quanto seguito dalle altre città a cui Milano deve riferirsi: Parigi e Londra. In entrambi i casi esiste una forma permanente di relazione tra il livello nazionale, quello del territorio allargato (metropolitano-regionale) e quello della città. Questa è una prima essenziale, e purtroppo assente, componente del primo pilastro del contratto urbano che ritengo necessario. Poi esiste un secondo pilastro che riguarda il rapporto tra i governi (nazionale e locale) e le imprese (globali e locali) che insistono sulla città. Anche in questo senso l’Expo potrebbe aver prefigurato una modalità di relazione tra i governi e le imprese. Si tratta per lo più di imprese multinazionali fortemente radicate a Milano, ma anche di imprese locali con vocazione nei settori della moda, design e industria creativa, oppure di servizio alla grande regione milanese. Per esempio la logistica, con tutte le declinazioni che il termine comporta, includendo le imprese aeroportuali, del trasporto ferroviario, della logistica delle merci. Questo secondo pilastro del contratto urbano consiste in un dialogo e una negoziazione strutturati tra governi e imprese. Anche in questo caso la situazione attuale è sostanzialmente deficitaria. Le imprese sono rappresentate dalla Camera di Commercio che è in fase di progressiva riduzione del proprio peso, in quanto si è diminuita in generale la possibilità dei governi funzionali di giocare un ruolo in tal senso. Le imprese globali non hanno alcuna forma di dialogo strutturato con i governi nazionali e locali. Quindi il bilancio è completamente insoddisfacente. Esiste poi un terzo pilastro del contratto urbano che sto immaginando e che riguarda il rapporto tra il governo locale e gli interessi privati, collettivi e di gruppo della città nella sua più piena e completa estensione. Anche questi debbono trovare una forma diversa da quella disponibile, oggi tutto sommato limitata, tra il Comune e la collettività milanese nelle sue varie espressioni, ma che dovrebbe essere estesa ad una scala metropolitana secondo il perimetro previsto dalla legge, e anche oltre. Quest’ultimo pilastro è tutto completamente da inventare.
Qual è il suo giudizio sull’applicazione della legge Delrio sull’istituzione della Città Metropolitana, specificatamente nel caso milanese?
La legge Delrio arriva con un ritardo pluridecennale, quindi è totalmente inadeguata rispetto ai processi che hanno segnato la crescita delle città negli ultimi venti anni. Nel frattempo l’Italia urbana è cambiata completamente. Questa non è fatta di città metropolitane ma di ampi sistemi, chiamati in gergo post-metropolitani, che possiamo cogliere nelle scale territoriali molto più estese delle città metropolitane disegnate dalla legge Delrio. Si tratta di quadranti di circa cento chilometri per lato, studiati e definiti recentemente dal PRIN (Programma di ricerca di interesse nazionale) “Postmetropoli”, dove si riescono a cogliere le realtà di Milano, Torino, Venezia, Firenze, Bologna, Roma, Napoli, Palermo ecc. Tali quadranti sono connessi, almeno per quanto riguarda il nord, da corridoi territoriali tra le città metropolitane nel senso più tradizionale del termine e che sono la novità come estensione urbana degli ultimi vent’anni. I corridoi territoriali collegano Milano a Venezia, Milano a Rimini, cioè i due principali assi della recente crescita urbana della Pianura Padana. Invece non è stato riscontrato un fenomeno analogo ma un effetto “tunnel” tra Milano e Torino collegate tra loro solo funzionalmente, non da forme di urbanizzazione paragonabili a quella precedente. Questa mappa raccontata in due parole dell’Italia urbana non è minimamente rappresentata o rappresentabile dalle città metropolitane della legge Delrio. Quindi bisogna fare altro, forse proprio a partire da queste istituzioni metropolitane. Il messaggio da dare è che il percorso non si è concluso ma inizia ora. Un percorso che deve andare nella direzione di inventare forme molto più estese di rappresentanza interurbana, intermetropolitana. Una strada interessante che potrebbe essere immaginata, studiata e percorsa. Una strada che va ben oltre le istituzioni della legge Delrio.
Gli ultimi passaggi noti sul futuro di Expo implicano la presenza diretta del governo centrale per la creazione di un polo capace di innescare un auspicato sviluppo urbano nell’area. Cosa pensa riguardo tali operazioni condotte direttamente dallo Stato?
Le ritengo positive ed indispensabili, soprattutto se pensate in funzione della trasformazione dell’area Expo verso attività di ricerca universitaria e sedi di ricerca per imprese private. Il modello già esiste ed è quello realizzato dal governo francese, la regione e la città nel nuovo polo di Paris-Saclay, dove si stanno concentrando tutte le attività di ricerca scientifica e tecnologica della grande regione parigina, le sedi delle università scientifiche, le direzioni dei grandi centri di ricerca delle imprese private e le “Grandes Écoles”. È stato pensato come uno dei grandi poli europei della ricerca e su questo progetto il governo francese ha investito in modo molto significativo, con cifre decisamente superiori rispetto a quelle di cui si parla da noi. Milano dovrebbe andare nella stessa direzione in quanto, trovandosi insieme a Parigi e Londra nel rango delle città-guida europee, deve dotarsi di strutture di tale natura. In questo caso quindi è corretta la scelta riguardo l’università, la ricerca pubblica e privata, è corretta la concertazione degli attori a partire dal governo nazionale, regionale e cittadino. Potrebbe rappresentare l’esperimento relativo al primo pilastro di un contratto urbano, un nuovo processo decisionale di cui abbiamo bisogno se vogliamo rimanere in sintonia con le grandi città europee.
Articoli precedenti:
Expo dopo Expo (di Antonio Angelillo)
Le aree dismesse faranno la Milano del futuro (di Sebastiano Brandolini)
João Nunes: per il post Expo pensiamo a funzioni temporanee (di Antonio Angelillo)
Vittorio Gregotti: l’area Expo come cuore multifunzionale di Milano Città metropolitana (di Antonio Angelillo)
Il dopo Expo doveva cominciare prima (di Luca Beltrami)
Come valutare gli impatti di Expo (di Francesco Memo)
Expo, occasione mancata per la città (di Giancarlo Consonni)
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expo 2015 , Milano
Last modified: 11 Gennaio 2016