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Paolo VitaliWritten by: Città e Territorio

Ritratti di città. Brescia frattale

Prima parte del report (anche fotografico) dal capoluogo lombardo, la cui evoluzione urbana presenta un mosaico incompleto, tra logica della costruzione per parti, difficoltà della pianificazione e latitanza della regia pubblica

 

«Da un passato denso di storia, ad un futuro in divenire.

Una prospettiva che attraversa il passato per arrivare dritto nel futuro.

Uno sguardo privilegiato, alla altezza di pochi».

(testo promozionale della torre “Skyline 18”, 2013 – www.skyline18.it)

 

Funivia/archeologia

Dall’alto dei suoi 874 metri il monte Maddalena – «isolato avamposto delle Prealpi nella pianura Padana» – domina Brescia sul lato nord-orientale. Sebbene un fitto bosco ne ricopra tutti i versanti, la sua importanza ambientale e il suo valore di spazio vitale (“riserva di naturalità”) per la città sono stati riconosciuti solo di recente, nel 2002, con l’istituzione del Parco delle Colline di Brescia. Prima, negli anni del boom, la Maddalena era stata luogo di conquista, simbolo di un’idea di “ritorno” alla natura come dominio, sfruttamento, rappresentazione addomesticata, semplice fondale scenografico per l’evasione dal caos urbano e ambientazione di nuovi stili di vita. In nome di ciò, negli anni ’50, la sua accessibilità (e la sua edificabilità) era diventata una priorità assoluta e inderogabile, una prospettiva condivisa da pubblico e privato, celebrata dal motto “la Maddalena a portata di mano”. E in nome di ciò, del mito della “montagna di casa” – “la montagna dei bresciani” –, si decise di costruire le infrastrutture necessarie per raggiungerne la cima, dove avrebbe dovuto sorgere un quartiere giardino. Dapprima, nel 1955, una funivia, che dalle pendici dei Ronchi della Bornata raggiungeva in pochi minuti la sommità del colle per offrire “un’ottima vista sulla pianura padana” e, di sera, “l’incantevole spettacolo di una città sfavillante di luci”. Poi, nel 1965, il completamento della strada di collegamento con la città, la via Panoramica, iniziata trent’anni prima. Un’euforia espansiva che durò poco e fu spenta definitivamente dal piano regolatore del 1977. La funivia, già dismessa nel 1969, venne smantellata nel 1984.

Ciò che resta di quell’entusiasmo, di quell’ingenuo trionfalismo e della fiducia nel futuro di quegli anni sono un ristorante, alcuni edifici residenziali abbandonati e il fabbricato vuoto della stazione d’arrivo (aggredito dalle antenne per le telecomunicazioni), a monte; la surreale pizzeria “alla funivia” di via Bernini, ricavata all’interno della vecchia stazione di partenza, a valle. Recentemente riconosciuto degno di tutela dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici, esempio della sperimentazione di quegli anni, questo edificio modesto ed esotico allo stesso tempo, segno incongruo e superstite oltraggiato di una modernizzazione affrettata, testimonia l’urgenza in nome della quale la modernità aveva posto fine alla vocazione agricola della parte bassa del monte, trasformato (e compromesso) strutture territoriali e paesaggi secolari che, a partire dal Trecento, si erano sviluppati sulle sue pendici più basse.

 

Padana/urbana

La quota che si raggiunge solo un paio di tornanti più in alto consente di traguardare, in direzione sud, senza ostacoli, l’ampio orizzonte verso la pianura padana, la “bassa”. Da quel punto si domina un paesaggio potente, una delle sintesi più significative della città: avvolte nella bruma ciminiere fumanti di acciaierie ancora attive e le torri di edilizia popolare del quartiere San Polo (Leonardo Benevolo, 1978-85) si alternano a nuove torri di vetro, ai grandi edifici di rappresentanza dei nuovi poteri, ai camini della centrale termoelettrica, alla sagoma sfuggente del termovalorizzatore (Jorrit Tornquist, 2000 – progetto cromatico). Un tutt’uno, a cavallo tra rigore geometrico e caos metropolitano. Una distesa edificata senza soluzione di continuità.

Negli ultimi 150 anni Brescia si è estesa dappertutto: ha attraversato il fiume Mella, ha riempito l’imbocco della Val Trompia, ha saturato le pendici delle colline (Monte Ratto e Picastello), ha scavalcato a sud la ferrovia, ha invaso la campagna, ha aggredito il monte Maddalena. I 90 kmq di superficie complessiva del territorio comunale, dei quali un quinto circa non pianeggianti, sono ormai quasi del tutto urbanizzati.

Solo un secolo e mezzo prima, a metà Ottocento, la città era ancora pressoché interamente contenuta dal perimetro delle mura venete: poco più di 2 kmq di superficie complessiva all’interno dei quali, nel 1950, vivevano ancora 50.000 abitanti, un terzo della popolazione totale. Un’espansione vertiginosa, orizzontale – che spiega in buona parte la natura e i caratteri della città odierna –, indotta dall’insediamento massiccio di attività manifatturiere e dal vorticoso processo di trasformazione innescatosi a partire dal secondo dopoguerra, quando si costruisce, secondo un disegno urbanistico non esattamente rigoroso e frutto di molteplici compromessi, l’attuale struttura urbana.

Espansione/segregazione/frammentazione

Se da un lato la forte presenza industriale rappresenta, fino agli anni ’70, l’elemento costitutivo della città cresciuta fuori dalle mura antiche, dall’altro assume un ruolo determinante nella definizione dell’impianto moderno una forte componente speculativa abile a utilizzare, già a partire dal primo dopoguerra, le politiche pubbliche per la casa come testa di ponte per consolidare le proprie strategie edificatorie. In questa vicenda la complicità dell’urbanistica ufficiale sarà evidente, come dimostrano le ipertrofiche previsioni insediative degli strumenti pianificatori (il piano del 1954, a cura dell’Ufficio tecnico municipale, ipotizza una popolazione di 400.000 abitanti per gli inizi del XXI secolo; il piano Morini, del 1961, di 600.000) e la logica insediativa dei quartieri residenziali di edilizia pubblica (INA casa, GESCAL, IACP) e convenzionata (Cooperativa La Famiglia, “case Marcolini”), collocati spesso in luoghi molto periferici e mal collegati del territorio comunale. Ne emerge un’impostazione di natura fortemente segregativa del progetto dello spazio urbano e della distribuzione della componente sociale operaia all’interno della città – di controllo, da parte della classe dominante, della dislocazione delle forze sociali, si sarebbe detto qualche anno fa – in un’epoca in cui era ampiamente superata l’idea della necessità di costruire i quartieri dei lavoratori vicini alle fabbriche. Impostazione a cui è in buona parte imputabile la crescita frammentaria della città, l’alternarsi di spazi edificati e città aperta che rappresenta ancora oggi uno dei tratti salienti del tessuto urbano bresciano.

Questa specifica configurazione – «una città dominata, nella parte di sua più recente costituzione, dall’alternarsi di vuoti e di pieni, dalla discontinuità e dal frammento» – «esito di un imponente fenomeno di dispersione e densificazione» e dei radicali processi di trasformazione di natura economica, culturale e sociale che l’hanno investita tra la metà degli anni ’70 e gli anni ’90, rappresenta la premessa (e il supporto) su cui si costruirà la Brescia contemporanea. Una città ormai articolata e policentrica di cui oggi sono maggiormente evidenti i rischi che non le potenzialità. Una struttura sintetizzata da Leonardo Benevolo (consulente, a partire da inizio anni ’70, dell’amministrazione pubblica e profondo conoscitore della realtà bresciana) con l’immagine dell’arcipelago, del mosaico mai completato, dei “villaggi” tra loro separati da spazi rimasti inedificati (destinati ad attrezzature pubbliche non realizzate), residui interstiziali di campagna.

Il PRG Secchi/Viganò

A tutto ciò Bernardo Secchi, incaricato (con Paola Viganò) nel 1994 di redigere il nuovo PRG della città – piano che diventa per gli autori occasione di studio e riflessione sulla città contemporanea –, aveva dato la definizione di “città frattale”, per intendere una conurbazione strutturata su “molteplici razionalità contrastanti” la cui relazione reciproca è spesso conflittuale. Per Secchi «tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’90 i caratteri frattali della città e del territorio – discontinuità, alternarsi di vuoti e pieni, frammentarietà di fatti urbani dotati ciascuno di una specifica identità – divengono irreversibili» e testimoniano del carattere pluralistico del nuovo ordine sociale, segnando una cesura radicale con il passato, la conclusione della Brescia moderna, l’inizio della Brescia contemporanea.

A fronte di ciò e constatati il fallimento del modello pianificatorio funzionalista e la rigidità e inefficacia dei suoi strumenti attuativi per fronteggiare la nuova complessità urbana, Secchi ha sostenuto la necessità di un salto di paradigma: il progetto per una “città priva di forme che possano facilmente essere colte” deve farsi carico in modo aperto e flessibile delle nuove questioni emergenti attraverso un approccio “elementarista” e per sistemi, utilizzando il carattere frattale (la discontinuità e una maggiore autonomia formale e funzionale) come occasione.

Al di là dell’esito della vicenda del PRG Secchi/Viganò (adottato nel 1998, annullato con una sentenza del TAR nel 2001 e riadottato nel 2004 con alterazioni importanti di alcune sue parti vitali), i temi (nuova struttura della mobilità, nuovi modi di abitare, ambiente) e l’approccio proposti possono ancora funzionare da chiave interpretativa per verificare l’efficacia di una serie di progetti urbani che da allora hanno contribuito, non esattamente nella prospettiva indicata da Secchi, alla sua ulteriore trasformazione.

Irreversibilità/refrattarietà

L’irreversibilità dei nuovi caratteri della città intuita e dimostrata da Secchi, invece che premessa di una nuova stagione di ricerca e sperimentazione e occasione per la messa a punto di nuove modalità operative, è spesso servita per legittimare le logiche esistenti: Brescia, nel suo continuo e accelerato processo di trasformazione, ha infatti mostrato negli ultimi anni – complice anche una mutata prospettiva culturale – una certa refrattarietà nel tempo a riconoscere il ruolo propulsivo (o quantomeno regolatore) dell’ente pubblico (e del progetto urbanistico) nella definizione delle strategie generali e nella gestione del territorio. La sua storia urbana più recente annovera da questo punto di vista una serie di operazioni connotate da un pragmatismo (e da un certo esibizionismo architettonico) i cui esiti sono ben lontani dalla qualità evocata con la definizione “visione unitaria aperta e flessibile” e strategica di lungo periodo.

Architettura di qualità?

Nella prospettiva della “città per parti”, che ha qui una delle sue espressioni più eloquenti, una lettura basata sulla qualità architettonica dei nuovi edifici (e sull’attenzione per il disegno degli elementi costitutivi della città), pur non esaustiva, dà comunque conto della natura dei processi in corso. L’inventario delle nuove torri o dei nuovi centri commerciali (i modelli di sviluppo ancora dominanti) non rappresenta quindi solo un mero aggiornamento contabile, ma può rivelarsi utile per rendere lo spirito della città e raccontare in questa chiave la sua vitalità economico-finanziaria e allo stesso tempo la sua difficoltà/incapacità di farla confluire dentro modelli spaziali qualitativi.

In questo senso è interessante rileggere le implicazioni di alcune delle più importanti operazioni recenti (cfr. l’autoparco Brescia Est, struttura al servizio dell’autotrasporto nata nel 2009 su un’ex area agricola di 173.000 mq, la più grande in Europa; o il centro commerciale Elnòs a Roncadelle, 100.000 mq inaugurati nel 2016) alla luce di questioni chiave come il consumo di suolo o le mancate sinergie tra i vari sistemi urbani, anche in relazione a ciò che accade in analoghe realtà europee.

Pianificazione dove sei?

Sebbene il carattere di “città rarefatta” di Brescia, come detto, chiami a un pensiero articolato per fronteggiarne progettualmente in modo adeguato la complessità e sia sempre più evidente come la visione territoriale debba sostituire una lettura del fenomeno urbano limitata ai suoi confini amministrativi, le risposte che vengono dalle trasformazioni in corso sembrano andare nella direzione opposta e le aree strategiche (spesso ex industriali), quando non compromesse in modo irreversibile dall’inquinamento (come la ex Caffaro, nel comparto Milano, inclusa nella lista dei siti di bonifica d’interesse nazionale), sono ancora pensate secondo l’esausto modello della sostituzione delle attività produttive con funzioni commerciali, residenziali e terziarie.

Emerge sempre più una difficoltà oggettiva della pianificazione (e della sua capacità di aggiornarsi) in una città che invece viene – a partire dalla seconda metà degli anni ’60 – da una lunga stagione di ruolo propulsivo dell’operatore pubblico. L’auspicato rafforzamento del ruolo del progetto (Secchi) sembra dunque contraddetto dai fatti. Si riscontra un arretramento diffuso e una rinuncia alle prerogative della regia pubblica, un consolidamento delle forme di gestione ibride e la subordinazione a logiche privatistiche all’interno delle quali l’interesse di scambio prevale sulla visione d’insieme, con l’aggravante dello stallo degli investimenti. Una deriva culturale – per certi versi una vera e propria ritirata – che caratterizza quasi tutte le vicende urbanistiche recenti di un certo rilievo, riguardino esse la grande dimensione (San Polo – ipotesi di recupero/demolizione della torre Tintoretto, 2015), o il contesto più minuto, ma di grande valore urbano, del completamento del tessuto storico (Corte Sant’Agata, 2017).

Il pragmatismo della pianificazione

Nonostante l’invito di Secchi a non rinunciare al progetto come strumento per governare la complessità e per un’azione efficace su vasta scala, l’atteggiamento fortemente pragmatico che ha connotato per decenni le scelte urbanistiche di Brescia – consentendo di tenere insieme (con esiti non sempre convincenti) fortissime spinte speculative e attenzione a uno dei quadri storico-architettonico-ambientali più significativi del Paese – sembra tuttora informare le modalità di gestione della pianificazione strategica relativamente alle seguenti questioni:

– la costruzione in altezza (nuove torri)

– l’insediamento di nuovi centri commerciali di grande impatto territoriale

– la costruzione del nuovo sistema di trasporto pubblico (metropolitana)

– le implicazioni territoriali del sistema dell’alta velocità ferroviaria (collegamento con Milano)

– la conversione delle aree industriali dismesse

– la creazione di sistemi urbani integrati (asse viario Triumplina)

– la gestione del patrimonio delle case popolari (vicenda torre Tintoretto)

– i completamenti in zone di pregio architettonico (centro storico)

– la relazione sistema infrastrutturale / sistema ambientale

– la relazione infrastrutture della mobilità / spazi aperti

Landmark: le nuove torri

Brescia – “laboratorio di sperimentazione e città da primato” – è stata la prima città italiana, e una delle prime in Europa, a costruire un “grattacielo”: l’episodio inaugurale – e a lungo isolato – di quella che si rivelerà, cinquant’anni dopo, una sorta di vocazione (costruzione in altezza come retorica dei nuovi poteri) è il “Torrione INA” di piazza Vittoria (M. Piacentini, 1932 – 57 m), “simbolo della verticalità muscolare del fascismo” ma in realtà figlio di un progetto presentato senza successo dieci anni prima al concorso per la nuova sede del “Chicago Tribune”. Se le torri del quartiere San Polo (“Cimabue” e “Tintoretto”, L. Benevolo, 1985 – 63 m), in quanto articolazioni volumetriche in altezza di un disegno urbanistico complessivo di matrice modernista, meritano un discorso a parte, episodi contestati come la torre (non realizzata) della nuova sede della Camera di Commercio (B. Fedrigolli, 1961 – 65 m), esito del concorso per la riconversione della centralissima e delicatissima area degli ex ospedali, nonché il grattacielo “Crystal Palace” (B. Fedrigolli, 1985 – 131 m) – di cui venne realizzata una versione più bassa (1990 – 110 m) –, sono dentro una “tradizione” di edifici autoreferenziali e sganciati da un disegno urbano unitario che, avviata con la realizzazione del centro direzionale Brescia 2 (1962-1990) – CAP Tower (1993 – 82 m), torre Kennedy (2002 – 57 m) –, si consoliderà negli anni 2000, seguendo diversi orientamenti: architetture che assumono il ruolo di landmark – la torre Oberdan (V. Boschi, L. Serboli, 2007), la torre “28 Duca d’Aosta” (M. Fuksas, 2011 – 60 m) – operazioni immobiliari su aree marginali – le tre torri del centro direzionale di via Flero (P. Cantarelli, L. Moro, 2006-2009 – 74 m) – riconversioni di ex aree industriali – la torre “Skyline 18” di via Fratelli Ugoni, nei pressi del centro commerciale “Freccia rossa” (Studio ArchA e P. P. Maggiora, 2013 – 80 m). Iniziative dagli esiti non sempre convincenti, spesso pubblicizzate attraverso slogan banali che rendono urgente un ripensamento in profondità del linguaggio dell’architettura e interrogano (con forza) sull’impoverimento d’immaginario di cui esso si è fatto complice.

Mobilità: metropolitana e alta velocità

Una città in cui il saldo tra popolazione diurna e popolazione notturna uguaglia il totale dei residenti (circa 200.000 persone, +100%), racconta di una tendenza consolidata a un sistema territoriale ormai fortemente interconnesso e sempre più centrato sulla mobilità. In quest’ottica, e nella prospettiva del contenimento di ulteriori spinte dispersive, il trasporto pubblico rappresenta per Brescia un ambito strategico. Elemento chiave del sistema è la nuova metropolitana (inaugurata nel 2013 ma concepita a partire da metà anni ’80), infrastruttura che collega, formando una grande “L” con parcheggi d’interscambio ai due capolinea, il centro storico e la stazione alle nuove centralità periferiche (ospedale, università e stadio a nord, centro direzionale e grandi quartieri popolari a sud est). Un’opera fortemente voluta ma controversa: tra gli elementi critici gli alti costi a fronte della dimensione della città (“la più piccola città d’Europa con metropolitana”), la mancata estensione del tracciato al territorio extracomunale e un’iniziale scarsa incidenza sulle abitudini di spostamento della popolazione (anche se gli ultimi dati sembrano indicare una tendenza opposta).

Percorso: Prealpino – Sant’Eufemia-Buffalora (17 stazioni, 14 kilometri)

Costo: circa 900 milioni

Progetto: ing. Lamberto Cremonesi

Cronologia: realizzazione 2003-2013; inaugurazione marzo 2013

Impresa: AnsaldoBreda, Ansaldo STS

Ben altro per ora sembra invece essere il potenziale di trasformazione indotto dal sistema dell’alta velocità ferroviaria che, con l’attivazione del collegamento Brescia-Milano (79 km), ha abbattuto i tempi di percorrenza (35 minuti) con conseguenze già riscontrabili sulle dinamiche territoriali di prossimità e ricadute immediate non solo sulle aree adiacenti alla stazione ma in generale su tutti i luoghi interconnessi in modo efficiente al macrosistema.

Quartieri popolari: la vicenda della torre “Tintoretto”

Vuota ormai da 5 anni, insieme alla gemella “Cimabue” la torre rappresenta il lascito problematico dell’ultimo e più significativo intervento unitario di edilizia pubblica residenziale del Novecento in Italia, il quartiere San Polo (Uffici tecnici comunali, coordinamento L. Benevolo, 1976-1994 – 350 ettari, 17.000 abitanti). Dopo di allora anche a Brescia si sono intraprese altre strade (quartiere Sanpolino, 2000-2008, dimensioni più contenute e scelte autoriali – 1.800 abitanti). All’architettura delle due torri, semplificazione estrema del modello Unité d’habitation, s’imputa il degrado sociale che caratterizza parte del quartiere. Dopo aver tenuto banco per diverso tempo, l’ipotesi della demolizione della “Tintoretto” come unica scelta possibile per risolvere il problema (sostituendola con tipologie più “accettabili”) sembra ormai tramontata, a fronte di una valutazione molto incongrua dell’edificio fatta da Investire sgr (operatore indipendente specializzato nella valorizzazione di portafogli immobiliari) ad Aler per proporne l’acquisto (500.000 euro). Una svendita del patrimonio pubblico che avrebbe configurato un danno erariale, irricevibile anche in tempi di crisi (a maggior ragione se si pensa che tutti i terreni di San Polo furono ai tempi acquisiti dall’amministrazione a trattativa privata). L’eventuale alternativa della ristrutturazione però, lungi dall’essere frutto di una riflessione sulla problematica eredità dell’urbanistica moderna, sembra per ora presa in considerazione solo per ragioni economiche.

Completamenti: “Corte Sant’Agata”

“Corte Sant’Agata” è un intervento recente in pieno centro, nei pressi dell’omonima chiesa, su un’area la cui esigua dimensione è inversamente proporzionale all’importanza storica e urbana. La sistemazione, in un punto nevralgico della città, ne “ricuce” l’antico tessuto e “conclude” una tormentata vicenda urbanistica iniziata quasi un secolo fa con le demolizioni per la realizzazione della piacentiniana piazza della Vittoria. Il nuovo (e abbastanza discutibile) volume fronte strada (fascia vetrata per gli spazi commerciali al piano terra, listelli di cotto sagomato per gli altri tre piani), è stato addossato a quel che restava delle antiche corti sventrate nel 1932 – il cosiddetto “vuoto del corsetto” – eredità dell’incompiuta “Traversa della Pallata” prevista dal nuovo assetto urbanistico voluto dal regime. Rimasta da allora un’area pubblica, oggetto d’innumerevoli riflessioni, bandi e concorsi d’idee senza esito, nel 2013 è stata girata agli aggiudicatari dei lavori di ripavimentazione di piazza Vittoria seguiti alla costruzione della metropolitana come pagamento parziale della fattura. Dopo tanti anni di attesa un contesto così delicato avrebbe meritato – date le premesse – miglior sorte.

Localizzazione: via Dante, corsetto Sant’Agata

Cronologia: 2013-2017

Progetto: ing. Simonetta Conter

Strutture: ing. Emanuele Alborghetti

Impresa: Campana costruzioni

Sistemi urbani integrati: Triumplina

L’asse viario della Triumplina, ovvero il tracciato che collega Brescia con la val Trompia e che vertebra il settore settentrionale della città, è l’infrastruttura su cui storicamente si sono appoggiate alcune delle principali centralità periferiche (ospedale, università, stadio, quartiere Casazza – “primo vero esperimento di nuovo quartiere di edilizia sociale pubblica a Brescia”, 1964-1975) e attualmente uno dei contesti di maggiore dinamicità della città. Si tratta di una struttura urbana in forte evoluzione il cui processo di trasformazione (sostituzioni, ampliamenti, densificazioni) è favorito da tre fattori: alto grado di accessibilità; disponibilità di ex aree industriali (complesso “Futura” – ex falegnamerie Pè, G. Lombardi, 2009 – 16.000 mq; complesso polifunzionale “Triumplina 43” – ex Idra Presse, Archi2 – G. Goffi, R. Franceschi, 2017 – 50.000 mq); costruzione della metropolitana (fermata Casazza, 2013) che ha favorito sinergie con i nuovi complessi e innescato processi di riqualificazione urbana. Vista la buona dotazione di servizi e la qualità delle strutture pubbliche presenti nell’area (piscina di Mompiano, C. Botticini, 2013), e visto il rischio di frammentazione dovuto all’ampio uso dello strumento della convenzione con i privati, l’amministrazione sta cercando di orientare tale dinamica nella prospettiva di un sistema integrato, reticolare e non più lineare.

Autore

  • Paolo Vitali

    Dopo alcune esperienze in Francia e Spagna, si laurea in architettura al Politecnico di Milano, dove poi consegue il dottorato di ricerca in Progettazione architettonica e urbana. All’attività di ricerca sulle forme dello spazio della città contemporanea e all’attività didattica (dal 2012 è professore a contratto presso la Scuola di Architettura del Politecnico di Milano) affianca il lavoro di progettista freelance e pubblicista, con interessi che spaziano dalla progettazione alla teoria, dalla ricerca storica sul “secondo modernismo” (anni cinquanta/settanta) all’architettura industriale. Dal 2010 al 2012 ha diretto la rivista «ARK», supplemento trimestrale di architettura dell’«Eco di Bergamo». Tra il 2013 e il 2014 collabora alla pagina culturale del «Corriere della Sera» (edizione Bergamo) e dal 2014 con «Il Giornale dell’Architettura» e con la Fondazione Dalmine

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Last modified: 20 Novembre 2018