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Michele RodaWritten by: Interviste

Carlos Moreno: «Saranno le Olimpiadi della prossimità. E via tutte le auto dai centri urbani densi»

Carlos Moreno: «Saranno le Olimpiadi della prossimità. E via tutte le auto dai centri urbani densi»

Il teorico della città-15-minuti ci racconta la visione urbana dei Giochi 2024, non rinunciando a qualche commento sulla realtà italiana

 

Ricercatore franco-colombiano, Carlos Moreno è professore all’Université Paris 1 Panthéon – Sorbonne/IAE, dove è anche direttore scientifico e cofondatore di ETI (una sorta di think tank, il cui acronimo sta per Entrepreneurship, Territory, Innovaton). Specializzato in sistemi complessi e questioni urbane, non è né architetto né urbanista, ma si occupa proprio di città. È l’inventore del concetto di città-dei-15-minuti sulla base del quale ha ideato, con molti partner istituzionali, un Osservatorio internazionale sulla prossimità sostenibile. Viene riconosciuto a livello internazionale uno dei più intensi pensatori e divulgatori sulle realtà urbane contemporanee. A Parigi è anche consulente della sindaca Anne Hidalgo.

 

Professor Moreno, possiamo davvero dire che quelle parigine saranno le Olimpiadi della prossimità?

Penso di sì, e per capire l’identità dell’evento estivo è necessario focalizzare tre aspetti. Fin dalla candidatura Parigi ha affermato la volontà di organizzare le Olimpiadi più sostenibili della storia. E lo stiamo facendo: basta osservare il rapporto tra nuove costruzioni e riusi. La stragrande maggioranza delle attrezzature olimpiche è il frutto d’interventi di rigenerazione. E lo stesso villaggio olimpico è tale solo di nome. In realtà sarà un nuovo eco-quartiere che – temporaneamente, per poche settimane – sarà utilizzato per atleti e personale.

 

Il secondo motivo?

La de-centralizzazione. Guardate la mappa dei Giochi. Ci sono eventi in centro, certo. Ma soprattutto nell’Île-de-France, la regione di Parigi che, insieme a quelli della capitale, conta circa 12 milioni di abitanti. E poi in tutta la Francia: si gareggerà a Nizza, a Marsiglia, a Lione, a Bordeaux. Perfino in Polinesia. Questa è una scelta decisiva proprio per l’idea di prossimità. Avere giochi “dispersi” significa de-saturare, avere un’idea di città policentrica, come anche policentrico deve essere lo sviluppo. Vuole dire coinvolgere più persone, usare l’occasione delle Olimpiadi per generare una nuova forma di urbanità.

 

 

Ma c’è un luogo simbolico di questo approccio.

Si trova al margine nord di Parigi, al confine con la municipalità di Saint-Denis, nella zona dell’Arena Port de la Chapelle. Si tratta dell’area più povera di tutta la Francia, con una serie di gravi problematiche economiche e sociali. È zona di forte immigrazione, la chiusura delle fabbriche negli anni ha provocato conflitti e tensioni. E, di conseguenza, un’urbanistica povera. Parigi ha deciso di portare qui le Olimpiadi, concentrando molti investimenti finalizzati a favorire lo sviluppo di spazi pubblici, aree verdi, posti di lavoro, piccolo commercio, infrastrutture culturali. I Giochi possono generare un salto importante nella qualità urbana, non solo con attrezzature sportive ma, più in generale, con servizi per gli abitanti. L’eredità di Parigi 2024, in questa zona, sarà questa: accessibilità e prossimità del quartiere come risposta ad una situazione di crisi.

 

Con quali strumenti?

Principalmente attraverso la creazione di una società mista pubblico-privata, Solideo. Fondata nel 2021, si occupa di tutte le infrastrutture olimpiche. La sua mission è orientata alla sostenibilità e all’accessibilità. Con scelte etiche: per esempio, almeno il 25% degli appalti viene dato ad imprese piccole e medie.

 

In centro però ci saranno più luoghi coinvolti. E lungo la Senna la cerimonia inaugurale.

Anche in questo senso, è una scelta di prossimità e di vivibilità. Place de la Concorde oggi è un grande incrocio stradale. Durante i giochi ospiterà la fan-zone e sarà interamente pedonalizzata. E non si tornerà indietro: dopo le Olimpiadi almeno la metà resterà senza auto, una grande trasformazione per Parigi. Lo stesso approccio di coinvolgimento e di apertura è il terzo aspetto che credo sia opportuno sottolineare. La cerimonia lungo il fiume creerà un’atmosfera unica con tutta la città in festa. All’aperto e non in uno stadio: è la prima volta che succede nella storia.

 

Oggi c’è qualche preoccupazione sul fatto che si potrà fare.

Certamente, le situazioni di guerra e il rischio terrorismo creano più di un dubbio. Ma l’obiettivo è di confermare questa scelta.

 

Nella Senna poi si dovrebbero svolgere alcune gare. Anche qui ci sono criticità legate alla qualità delle acque.

Un rischio, ma una scelta importante. Sono stati fatti molti sforzi per migliorare la situazione, speriamo bastino. Abbiamo l’esperienza straordinaria delle ultime tre estati: Parigi ha trasformato il Canale dell’Ourcq, di fronte alla Cité della Villette, in un grande bacino balneabile, con piscine e vasche. L’obiettivo è chiaro, poter vivere sempre più gli spazi urbani, compresi i corsi d’acqua.

 

Poco più di trent’anni fa, Barcellona 1992, ha mostrato al mondo come fosse possibile sfruttare le Olimpiadi per una grande trasformazione urbana. Ci sono analogie con Parigi 2024 in termini di visione del grande evento come generatore d’impatti urbani?

Credo che le due strategie siano state molto diverse. A Barcellona c’è una città pre-Olimpiadi e una post-Olimpiadi. Questo anche perché il sindaco Pascual Maragall utilizzò in qualche modo l’occasione per costruire una propria dimensione di sindaco icona. Credo che Anne Hidalgo non ne abbia bisogno. È tra i primi cittadini più in vista a livello internazionale, ha una precisa identità ecologista, è stata presidente di C40. Da qui deriva anche una scelta meno orientata all’immagine. E più generosa in termini di decentralizzazione. A differenza di Barcellona, c’è un centro di gravità diverso per le Olimpiadi 2024: non il centro di Parigi ma Saint-Denis, cioè un comune autonomo.

 

Azzardiamo: la Parigi olimpica è la Parigi dei 15 minuti. Una visione che ha assunto grande visibilità dopo la pandemia. Con quali effetti?

Ho sviluppato la teoria nel 2016, dopo la COP21 di Parigi. Ha assunto notorietà internazionale a partire dal 2020 per la concomitanza, in un breve periodo, di tre emergenze: sanitaria, ambientale ed energetica. Il modello della città-15-minuti è una risposta a queste condizioni problematiche. Per decenni le nostre città sono state progressivamente centralizzate, frammentate, rotte e segregate. Adesso abbiamo bisogno di un percorso per trasformarle nella direzione della vivibilità e dell’accoglienza.

 

Un modello che sta avendo un certo successo?

Molte realtà internazionali lo hanno assunto, e per me questa è una grande soddisfazione. Penso alla UE, a UN-Habitat ma anche a C40, che riunisce i sindaci delle principali città, tra cui Beppe Sala, primo cittadino di Milano. Città europee ma non solo: Buenos Aires, realtà cinesi, Busan in Corea del Sud, che ha modificato il suo approccio, da smart city a 15-mins-city.

 

Sono soprattutto le grandi città ad avvicinarsi?

No, ci sono anche realtà più piccole interessate al concetto. Dell’Europa Centrale, del Sud America, del Maghreb. Ma ci sono anche realtà imprenditoriali. Come Nhood, fondata proprio con l’idea di applicare un nuovo modello urbano. A Milano, la riqualificazione di piazzale Loreto – da rotonda stradale a spazio pubblico integrato – è una loro iniziativa. E, dal nostro osservatorio alla Sorbona, registriamo anche un forte supporto dei media internazionali.

 

Ma ci sono anche parecchie critiche.

Gli scettici sostengono che una città di prossimità sia una sorta di ghetto, sono loro a fomentare le paure dei cittadini di dover vivere chiusi in un perimetro, senza la libertà di uscirne. Ci sono state campagne mediatiche, ho ricevuto anche minacce. Quando sono stato in Argentina, ad esempio, dovevo muovermi con una scorta.

 

In Italia molti sostengono: non è un’invenzione, le medie città italiane sono esattamente questo, città di prossimità.

Chi lo dice ha ragione, le vostre città sono state per me fonte d’ispirazione. Quelle della civilizzazione romana, ma anche i modelli più vecchi. Per 5 millenni le città sono state luoghi di prossimità. Poi, da 80 anni circa, è arrivata l’auto, con gli effetti e le esigenze che ha generato: inquinamenti, distanze lunghe, esigenze di strade sempre più ampie, edifici autonomi lontani da tutto. Ho sviluppato il modello della città-15-minuti come tentativo di umanizzare le nostre città. Sulla scorta di quanto sosteneva Jane Jacobs o, più recentemente, il mio amico Jan Gehl. Ma si può andare anche più indietro nel tempo, a Georg Simmel con il suo The Metropolis and Mental Life del 1903: vivere una città non significa solo averci una casa, ma trovare una serie di servizi. Dal Moderno in avanti invece siamo stati dominati da tre elementi; edifici, automobili, strade. La rigenerazione delle città passa da una forma di prossimità felice, all’interno della quale è possibile trovare diverse opportunità.

 

Al di là delle critiche, la teoria Moreno ha molti estimatori anche tra le amministrazioni italiane.

Innanzitutto, per la seconda volta sono stato chiamato a presiedere il comitato scientifico del Consiglio nazionale degli architetti. Una bella opportunità per definire una via italiana alla prossimità. I sindaci di grandi città come Milano, Roma e Bari hanno dimostrato interesse. Ma anche le amministrazioni di Bologna, Matera, Siracusa. Che ci sia un movimento globale che supporta il modello di città-15-minuti è una bella soddisfazione, ma solo a condizione che questa visione non venga intesa come una sorta di bacchetta magica per tutti i problemi urbani.

 

Abbiamo citato Bologna. In questi giorni è forte la polemica dopo la decisione dell’amministrazione di rendere zone 30 la maggior parte delle strade.

Sostengo pienamente la scelta del sindaco. Anzi credo serva andare oltre: nelle zone centrali dense le auto non ci vogliono proprio, non ne abbiamo bisogno. Servono invece spazi pubblici per incentivare il commercio locale. Gli scambi sono fatti dalle persone, non dalle auto. Lo abbiamo detto: per le Olimpiadi di Parigi ampie zone verranno rese pedonali. Ecco questa è la strada per aumentare la vivibilità.

 

Ritratto di copertina: Carlos Moreno, ©ThomasBaltes, courtesy add editore

 

Il libro

Da Richard Sennett (che scrive la prefazione) a Saskia Sassen (che firma la postfazione), l’edizione italiana – nella traduzione di Chiara Licata – dell’ultimo libro di Carlos Moreno, La città dei 15 minuti. Per una cultura urbana democratica (add editore, 2024, 168 pagine, 18 €; la versione francese originale è del 2020) è un lungo e intenso saggio intorno alla città, nelle sue molteplici forme. Tra diritto e vivibilità, tra prossimità e tecnologia, i dieci capitoli in cui è strutturato sono “un viaggio nel mondo urbano”, come lo definisce lo stesso Moreno nei ringraziamenti finali. Ci sono cenni storici, molte citazioni e altrettanti riferimenti. Avanzando nel testo, con continui salti tra continenti a costruire una dimensione di sfondo realmente internazionale, prende forma e si assembla – teoria dopo teoria, richiamo dopo richiamo – tutto il mondo di Moreno e le basi della sua visione di una città sostenibile, prossima, amichevole, pacificata. Una città “ubiqua” (aggettivo che non a caso compare nel titolo di uno dei capitoli) raccontata per parole e slogan. Senza immagini: l’unica, in copertina, è Le Grand Globe, presentato nel 1895 dal geografo francese Élisée Reclus. Una visione di un non architetto, che – se realizzata (ma non lo fu per mancanza di adeguati finanziamenti) – avrebbe consentito di esplorare e conoscere una Terra senza alcun confine politico. Riferimento emblematico e simbolico che suggestiona rispetto alla consapevolezza e alla libertà dei cittadini. Un orizzonte che il libro propone a partire da una visione rinnovata dello stesso “essere città”.

 

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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Last modified: 31 Gennaio 2024