Una riflessione del direttore dell’Istituto forestale europeo a margine del World Forum sulle foreste urbane di Mantova
«Foresta urbana» è definizione che suona come una contraddizione in termini. Eppure – grazie anche al planetario successo del Bosco verticale di Stefano Boeri Architetti – è tema che sempre più affascina il mondo dell’architettura e dello sviluppo urbano. Tanto da arrivare ad organizzare (da parte della FAO – Food and Agriculture Organization of the United Nations) il primo World Forum on Urban Forests, tenutosi a Mantova (28 novembre – 1 dicembre), grazie all’interesse dello stesso comune lombardo e di alcuni promotori italiani, tra cui lo stesso Boeri. Quattro intensi giorni d’incontri ed eventi che hanno avuto il merito principale di costruire scenari e relazioni sul tema delle città in relazione alle questioni ambientali. Tra i contributi più significativi c’è stato quello di Marc Palahí, direttore dell’Istituto forestale europeo. A lui “Il Giornale dell’Architettura” ha chiesto una riflessione.
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Winston Churchill era solito dire che «noi diamo forma ai nostri edifici, poi sono loro a dare forma a noi». Potremmo allargare questa posizione alle città perché ci siamo trovati a costruire i primi sistemi urbani migliaia di anni fa e da allora sono proprio le città a formare la civiltà umana. Proprio la parola civilizzazione deriva dal latino civis, che definisce chi vive in città. Tuttavia, nonostante le città siano entità vecchie tanto quanto la civilizzazione umana, l’urbanizzazione come trend globale è un fatto relativamente recente. È stato infatti soltanto in questo secolo che, per la prima volta, la popolazione urbana ha superato quella rurale. Due secoli fa, tanto per fare un esempio, appena prima della Rivoluzione industriale, soltanto il 7% della popolazione mondiale viveva in città. Da allora l’urbanizzazione ha accelerato il suo ritmo: ogni giorno le nostre città accolgono qualcosa come 200.000 nuovi abitanti e si calcola che nel 2050 i due terzi della popolazione mondiale vivrà negli agglomerati urbani. Questo significa anche la necessità di costruire nuovi pezzi di città. Quindi – considerando che le città sono certamente gli hub della nostra economia e della nostra innovazione ma anche i maggiori consumatori di energia e risorse – è fondamentale riflettere sui motivi e sui modi della loro crescita e sulle conseguenze di tale rapido fenomeno nell’ottica di uno sviluppo sostenibile.
In questo quadro è innanzitutto importante ricordare che le città emergono perché sono il sistema più efficiente di auto-organizzazione in reti sociali, elemento che ottimizza le nostre interazioni, così come lo scambio d’idee e informazioni, favorendo la costruzione di un benessere che si fonda su divisione del lavoro, specializzazione e innovazione. Tutto questo mentre si riducono i costi degli scambi e delle infrastrutture. Quindi le città sono i sistemi più efficienti per creare capitale sociale ed economico. Ma quali sono gli impatti dal punto di vista del nostro capitale naturale e per il nostro ambiente, che sono la base dello sviluppo sostenibile?
Per ragionare su questo è anche necessario riconoscere le differenze fondamentali tra città e sistemi biologici. In questi ultimi, la quantità di energia necessaria per la crescita tende a diminuire nel progresso della crescita stessa fino a raggiungere un punto di arresto. Possiamo dire che gli organismi biologici crescono in maniera sub-lineare. Nelle città succede il contrario: più grande è il sistema urbano, più risorse devono essere destinate alla sua crescita socio-economica e più forte è il ritmo di crescita. Più grande è la città, maggiore è la quota media di possesso, produzione e consumo di beni, risorse e idee da parte del singolo individuo. Quindi le città crescono in maniera super-lineare con un ritorno crescente, conseguenza della disponibilità di energie e risorse.
Questo spiega perché l’urbanizzazione non è cresciuta fino a quando non si è innescata la Rivoluzione industriale, fenomeno che ha permesso l’accesso massivo e a prezzi ragionevoli a materiali ed energie. Questo è il motivo per il quale l’Inghilterra, il primo paese industriale, è stata anche la prima realtà a raggiungere il 50% della quota di popolazione urbana, nel 1850, un dato raggiunto dagli Stati Uniti soltanto 60 anni più tardi. Questo spiega anche perché questo dato è stato toccato a livello mondiale soltanto in questo secolo, dopo aver sperimentato negli ultimi 30 anni la più consistente crescita economica mondiale. In questo periodo la popolazione urbana è raddoppiata, ma il PIL globale è addirittura triplicato. Chiaramente, crescita economica e urbanizzazione provocano accelerazioni reciproche. Ma – 200 anni dopo una fase di urbanizzazione senza precedenti ed un’economia basata sui combustibili fossili – siamo arrivati ad un punto di svolta. Il nostro mondo urbanizzato è diventato troppo grande per il pianeta. Questo si nota evidentemente nei cambiamenti climatici, nella perdita di bio-diversità e nell’impoverimento delle nostre risorse naturali. Raggiunto appunto questo livello, dovremmo ricordare le parole di Albert Einstein quando diceva che «non possiamo risolvere i nostri problemi attuali con lo stesso modo di pensare di quando li abbiamo creati». Abbiamo bisogno esattamente di un nuovo modo di pensare come fondamento di un nuovo paradigma economico per il nostro ambiente urbano. Un paradigma in cui le città assumano il ruolo di leader nel ripensare l’economia per garantire prosperità, ma all’interno dei limiti rinnovabili del nostro pianeta. Un paradigma, ancora, basato su innovative relazioni sinergiche tra economia e biologia, tra aree urbane e rurali con l’obiettivo di sostituire le attuali, lineari, forme economiche basate su combustibili fossili con forme di bio-economia circolare. Le città hanno bisogno di conquistare questo ruolo non solo in termini di energie rinnovabili, ma anche in termini di materiali, sostituendo quelli non rinnovabili come la plastica, l’acciaio o il cemento con altri di natura biologica, sostituendo infrastrutture grigie con infrastrutture verdi.
Permettetemi di fare un esempio concreto. In Europa la costruzione ed il relativo uso degli edifici rappresenta il 35% delle emissioni di anidride carbonica, il 40% dei consumi energetici e il 50% dell’impiego di materiali. Questo succede perché sono due materiali non rinnovabili (acciaio e cemento) a dominare il campo delle nostre infrastrutture urbane con i relativi impatti di emissioni nocive. Sostituirli con il legno significherebbe ridurre sostanzialmente l’impronta ecologica del settore perché il legno è il solo materiale da costruzione rinnovabile e che cresce in maniera sostenibile. Usarlo più diffusamente è uno dei più efficienti modi per ridurre la percentuale di anidride carbonica nell’atmosfera e per immagazzinarla a lungo. A questo si aggiunge il fatto che foreste urbane e progetti che collocano alberi intorno agli edifici permettono una migliore efficienza nel raffrescamento e nel riscaldamento degli ambienti interni. E riducono gli effetti da isola di calore urbana. Quindi, legno, alberi e foreste sono chiamati a diventare la spina dorsale delle nostre città smart in termini climatici: le bio-città.
In conclusione, le città oggi rappresentano il bene e il male del nostro mondo. Hanno una doppia natura, sono la nostra sfida più importante ma anche la più grande opportunità per trasformare il nostro paradigma economico come base per un futuro sostenibile. Credo che un percorso di biologizzazione delle città sia un fattore indispensabile per garantire al nostro mondo urbanizzato uno sviluppo che sia in armonia con la natura.
(traduzione di Michele Roda)
Immagine in evidenza: il progetto Soul of Nørrebro dello studio SLA, vincitore del Nordic Built Cities Challenge, competizione internazionale che ogni anno riunisce sei paesi scandinavi – Danimarca, FarØer, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia – su progetti di sostenibilità
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città , territorio fragile
Last modified: 29 Dicembre 2018