Visit Sponsor

Written by: Inchieste

La Palermo reietta e la tribù dei figli del ghetto

Girando alcune zone di Palermo si fatica a pensare che ci si trova nell’Europa del XXI sec.: case bombardate dai tempi della guerra, gente che abita nei garage, bambini che fanno il bagno nella fontana, magazzini adibiti a taverne frequentate da soli uomini che paiono presi da losche trame, stalle abusive con bestiame da fattoria e galline che razzolano davanti allo sguardo stranito di qualche turista. Non si tratta di immigrati provenienti da regioni rustiche e sperdute residenti in dimenticate periferie, ma di veri autoctoni e del centro storico.
Palermo, come Napoli e Bari, mette in piazza quel che la retorica autorappresentazione dell’Europa tende a rimuovere: luoghi decrepiti e sudici abitati da una popolazione deprivata, umiliata o incattivita, seppur ammantata del fascino della decadenza. Come spiega Marc Bloch, non dappertutto la storia ha la stessa velocità o la medesima direzione: in certi spazi l’orologio batte un altro tempo.
La popolazione palermitana è compartimentata in due ceti più nettamente che altrove: l’uno – tra mediocrità ed eccellenze – omologabile alla definizione di «europeo»; l’altro esente, nel bene e nel male, da ogni forma di globalizzazione, resistente ai tentativi di gentryfication, immune per cultura, valori e gusto al progetto europeistico. Ovviamente ci sono fasce intermedie, ma la scarsa mobilità sociale, un’economia fiacca basata sulla trasmissione di patrimoni e mestieri, un diffuso classismo e dunque una rigida endogamia per ceto, fanno sì che i gruppi sociali siano ben distinti quasi si trattasse di due tribù.
E come due tribù che coabitano si distinguono in primis perché parlano lingue diverse, così la prima parla l’italiano, la seconda il dialetto.
I loro progetti di vita sono cadenzati da ritmi radicalmente asincronici: i giovani della prima tribù lasciano la scuola e hanno figli circa al doppio degli anni in cui finiscono di studiare e si riproducono quelli della seconda tribù.
Spazio privato e spazio pubblico sono per gli esponenti della prima tribù nettamente distinti; non altrettanto per la seconda: nei quartieri popolari la porta di casa durante il giorno é tenuta aperta, anche quando si affaccia in strada e, contemporaneamente, la strada viene utilizzata come estensione della casa, posizionandovi sedie e tavolini si improvvisano salotti e sale da pranzo.
Cambia perfino la religione: la prima «tribù» è in buona parte cattolica, per di più poco praticante e crede in un unico Dio. La seconda tribù, pur dicendosi di norma altrettanto cattolica, professa una religiosità simil-politeista, a tratti animista, in cui i santi o le Madonne che proteggono i rioni sono adorati come divinità di un variegato pantheon e genius loci.
Un altro elemento chiave della differenza tra le due tribù é il rapporto con lo Stato e le leggi. Il primo gruppo non si distingue per comportamenti sempre specchiati, irregolarità e illegalità sono trasversali. Tuttavia la prima tribù riconosce, seppur formalmente, l’autorità dello Stato e dichiara di professare valori compatibili con il diritto vigente. L’illegalità che caratterizza il secondo gruppo non è un mero trasgredire le norme, è un misconoscimento dello Stato, delle sue leggi e dei suoi rappresentanti, quasi al pari di una comune anarchica. E ciò accade in un accordo tacito: le istituzioni si disinteressano delle zone abitate dalla seconda tribù (strade, scuole, edilizia popolare sono lasciate sporche e fatiscenti) in cambio tollerano che la seconda tribù si accaparri spazi di arbitrio, mentre le organizzazioni criminali colmano il vuoto d’autorità e riscuotono consenso proponendo le loro forme di welfare. Capita talvolta che persone delle istituzioni s’interessino alla sorte di individui della seconda tribù, ma ciò avviene spesso in uno scambio personale e colluso.
Ma perché si sente così poco parlare di questa parte di popolazione? Fondamentalmente perché non ha nome. Il nome non è un elemento accessorio: una cosa innominata non può essere oggetto di attenzione, studio, intervento politico o economico e dunque socialmente non esiste. Termini candidati a battezzare la seconda tribù palermitana potrebbero essere quello di “sottoproletari”, ma è datato e schierato; «popolo» è eccessivamente polisemico; offensivo quello di “plebe”, che Giuseppe Davanzo utilizzò per definire il pervertimento della popolazione napoletana esposta ad un “clima ferino”.
Si potrebbe proporre il nome di «figli del ghetto». Un rap che i ragazzi delle borgate di Palermo canticchiano, nel ritornello snocciola la toponomastica dell’esclusione: «Settecannuoli, Brancaccio, Cep, Ballarò, Maciuni, Buiggunuovu, Zen…» e descrive la vita di un tipico abitante:

Sugnu nicu, vivu ‘stu buiggu finu’n funnu
Cu’ll’amici mia cassutta cu palluni aviemu u munnu

ca mi fa scuiddari ca nascivu muoitt’i fame,
cu me patri rintra, me matri ca travagghi‘o fuinnu.
A’gghir’a scuola mi siddìa, fazzu prima,
arriest’a casa, ‘st’einnata a Vucciria! (cucì!)[1]

Vita di strada, padri assenti, illegalità diffusa, povertà, dispersione scolastica, stigma sono la cifra del figlio del ghetto. Il ghetto è un luogo perimetrato a volte da confini visibili, più spesso da muri invisibili più difficilmente valicabili dei muri reali. È un pezzo di città i cui abitanti non sono cittadini appieno, stranieri o autoctoni che siano.
I figli del ghetto fanno paura perché sono carichi di rabbia, ma sono essi stessi impauriti: temono di trasbordare la loro zona, familiare e segregata, poiché se lo fanno sentiranno addosso la sensazione costante di essere «fuori posto».
Le pietre infatti parlano, da sempre gli edifici hanno pronunciato discorsi a proposito di potere ed esclusione: la grandiosità dei palazzi e delle chiese dice chi è l’autorità, le baracche delle slum sentenziano chi non merita diritti, il gineceo di case e chiese asserisce che le donne vanno tenute a parte, i recinti dei manicomi assicurano che la malattia mentale riguarda sempre “gli altri”. Questi discorsi fatti di mattoni e calcina o di ferro e cemento sono probabilmente falsi, ma terribilmente eloquenti. L’idea del dominante modella lo spazio e uno spazio così modellato plasma le menti e il linguaggio dei suoi abitanti, poiché guardandosi attorno si trovano solo conferme dell’ideologia egemone. E così chi nasce nel ghetto impara presto che chi cresce in un luogo brutto, sporco e povero merita degrado, ignoranza e miseria. La marginalità spaziale diviene infine una marginalità accettata e interiorizzata.
Palermo è una città che si è gonfiata di figli del ghetto, le politiche urbanistiche che hanno persistito nel fabbricare bruttura ed esclusione sono imputabili dell’abbrutimento e della devianza dei suoi abitanti.

[1][trad. “Sono ancora piccolo, ma vivo appieno questo quartiere. Con gli amici qui in strada e un pallone ci costruiamo un mondo che ci fa scordare che siamo nati disperati; con mio padre in carcere e mia madre che lavora in un panificio. Non ho voglia di andare a scuola, faccio prima a restare a casa. Oggi, amico mio, ce ne andiamo alla Vucciria!”] Combomastas, U Tagghiamu stu palluni…?!, 2008.

Autore

(Visited 210 times, 1 visits today)

About Author

Share
Last modified: 26 Settembre 2015