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Written by: Inchieste

Se l’obiettivo è arricchire alcuni portafogli privati, questo Decreto è veramente portentoso

Il Decreto 70 propone «misure diverse finalizzate allo sviluppo e al rilancio dell’economia». Secondo lei centra l’obiettivo?
Vi sono diverse «economie» possibili. Quella che domina nelle teorie e nella prassi di chi governa oggi l’Italia è basata sulla privatizzazione dei beni comuni e sull’appropriazione da parte dei privati di tutte le rendite, a cominciare da quella immobiliare. È un’economia il cui obiettivo finale è arricchire i portafogli dei potenti, portando via alla collettività quello che può essere convertito in moneta nei tempi più brevi. A questo fine il Decreto è veramente utile. Se invece l’obiettivo è un’economia che valorizzi il lavoro, arricchisca le dotazioni sociali, accresca il benessere degli abitanti (a partire dai più deboli), allora certamente gli effetti di questo Decreto saranno devastanti.

Uno dei punti più discussi riguarda le coste, con tempi di concessione ai privati ridotti a 20 dagli iniziali 90 anni, e lo sviluppo di distretti turistico alberghieri: quali scenari si aprono?
La questione delle coste è l’esempio più limpido dell’economia perversa cui accennavo. Nella consapevolezza generale, e negli stessi codici del diritto e delle istituzioni, le nostre coste sono un bene comune e un bene pubblico. Si è riconosciuta questa loro natura nelle leggi e nello stesso assetto patrimoniale instaurato in Italia dalla borghesia capitalista e liberale. Le coste sono state inoltre riconosciute come una componente essenziale del paesaggio nazionale: una delle categorie di beni più rigorosamente tutelati, in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, e di tutta la legislazione di tutela del paesaggio nata con la legge Galasso del 1985 e con le successive stesure dei codici del paesaggio (dal testo unico di Giovanna Melandri al codice Urbani e Francesco Rutelli).
Tutelare le coste non significa solo rispettarne il paesaggio ma anche garantirne la più aperta fruizione da parte di tutti. Aprirne l’uso alla cementificazione e alla privatizzazione significa quindi consentire la distruzione per l’un e l’altro aspetto. Un’aberrazione che avrebbe richiesto forme di protesta molto più accese di quelle che pure vi sono state e che hanno prodotto il risultato, peraltro limitatissimo, di ridurre il periodo della loro privatizzazione. Considero del resto questo risultato del tutto irrisorio. La vicenda delle concessioni autostradali ci racconta con chiarezza una storia che certamente si ripeterà: vedremo puntualmente prorogare i termini alla scadenza dei vent’anni. Nel nostro paese diventano definitive tutte le decisioni provvisorie, purché siano devastanti per il pubblico e fruttuose per il privato.
Se davvero ridiventassimo un paese civile (è un’ipotesi che dopo i risultati delle recenti elezioni amministrative non mi sento di escludere) certamente impediremmo di governare alcunché a governanti che abbiano promosso, o accettato, un simile abominio: proclameremmo per loro l’interdizione perpetua a qualunque ruolo pubblico.

Il Decreto continua a semplificare le procedure in ambito edilizio al fine di favorire l’intervento privato, lanciando quello che è stato definito un nuovo Piano Casa. È deregulation o liberalizzazione?
Nel termine «liberalizzazione» è compresa una certa razionalità. Nell’ambito della produzione di merci (scarpe o panettoni, chiodi o caramelle, opere edilizie o tubi d’acciaio) è ragionevole sostenere che non è compito del settore pubblico produrli. La regolamentazione di ciò che si può fare sul territorio, e in che modi, quantità, funzioni, è certamente nelle competenze di un’istituzione che rappresenti la totalità dei cittadini. Del resto la pianificazione urbanistica moderna è stata inventata dagli stati liberali e borghesi nell’età del capitalismo, proprio perché ci si è resi conto che il mercato, da solo, non sapeva né poteva risolvere alcune questioni che richiedevano una visione (e una decisione) collettiva, d’insieme, sistemica. L’Italia vive il risvolto più negativo della deregulation. Il carattere stupidamente reazionario di queste norme è veramente straordinario; molto più imbarazzante, per noi italiani, del bunga bunga.

Il Decreto modifica anche il Codice dei beni culturali, portando a 70 anni il limite di 50 per potere apportare vincoli di tutela dei beni immobili pubblici. Qual è la sua valutazione come uomo di cultura?
Anche questa è una follia. Non c’è bisogno di essere uomo di cultura per comprendere che cancellare storia e arte è un segno d’incapacità a comprendere i principi base della civiltà. Esiste futuro solo per un popolo che conosce e rispetta il suo passato e apprende da esso. Il fatto è che gli anni di cui si vorrebbero cancellare le testimonianze architettoniche sono stati quelli più fruttuosi della nostra storia recente. Gli anni della Resistenza, della Repubblica, della Costituzione, della speranza per dei domani che cantassero. Gli anni, per esempio, del monumento alle Fosse ardeatine, epitome di ciò che vogliono distruggere.

L’Italia attende ormai da molti anni una Legge di governo del territorio che superi i provvedimenti frammentari e a volte contraddittori che, come conferma anche quest’ultimo, continuano a regolare gli interventi. Non è anche colpa delle troppe divisioni tra culture, non solo urbanistiche?
Non basta una nuova Legge urbanistica. Serve una buona Legge urbanistica: che sia finalizzata a organizzare città e territori nell’interesse dei cittadini di oggi e di domani, e non nell’interesse della rendita immobiliare, del suo accrescimento, della sua appropriazione da parte dei più potenti, ma con questi chiari di luna…

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Last modified: 10 Luglio 2015