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Written by: Inchieste

Federalismo demaniale, le caserme non riescono a sedurre i privati

Nel Decreto sviluppo sono contenute misure relative alla valorizzazione degli immobili ex militari, ai commi 17 e 18 dell’articolo 4. L’intervento s’inserisce in un quadro nazionale poco coerente e non considera adeguatamente problemi gestionali, potenziali effetti critici locali e incerte opportunità di sviluppo territoriale.
Da inizio anni novanta il governo interviene in modo frammentario relativamente ad alienazione e valorizzazione degli immobili pubblici. Si distinguono almeno cinque strategie in parte sovrapposte. In varie fasi sono istituite società e agenzie con specifiche competenze operative e finanziarie. A metà anni novanta si tenta d’introdurre un doppio regime per la gestione dei beni in base al loro valore economico, poi si punta su nuovi meccanismi finanziari, come le cartolarizzazioni. Dal 2007, quando l’Agenzia del demanio assume maggiore operatività dopo un primo censimento degli immobili di potenziale interesse, la strategia di valorizzazione adotta strumenti concessori e mostra attenzione alle implicazioni territoriali degli interventi, anche in relazione a processi di sviluppo (è il caso dei Programmi unitari di valorizzazione). Nella fase attuale è avviata una duplice strategia. Da un lato si concedono immobili agli enti locali in virtù del federalismo demaniale e a fronte della riduzione delle risorse ordinarie trasferite dallo Stato. Dall’altro s’introducono forme negoziali tra attori centrali e periferici: è il caso dei recenti protocolli d’intesa che consentono al ministero della Difesa di alienare i propri immobili dedicando parte dei proventi alla spesa corrente.
Il Decreto non prende posizione rispetto a questi orientamenti, fondati su logiche e strumenti radicalmente differenti: consente l’attribuzione agli enti territoriali – su loro richiesta – di patrimoni immobiliari oggetto di accordi non completamente attuati. L’applicazione sarà resa operativa da decreti proposti dai ministri dell’Economia, delle Riforme e da altri. Non si tratta di un fatto nuovo. Negli ultimi vent’anni le iniziative promosse da governi di diverso orientamento sono contraddittorie, in modo eclatante nell’ambito dei beni culturali (come caserme e forti storici) o nella proliferazione di agenzie centrali con competenze concorrenziali. Gli esiti sono ben al di sotto delle attese, sia per il reperimento di risorse finanziarie che per i processi di sviluppo attivati. In questo quadro, anche gli operatori immobiliari più audaci pagano le conseguenze dell’incertezza su regole e procedure, legate a una politica nazionale ondivaga se non estemporanea, con gravi carenze d’informazione, ricerca e dibattito pubblico sul tema. Il Decreto conferma questi limiti, e ciò è ancor più evidente se osservato dalla prospettiva dei processi locali.
Anche quando la proprietà è data in concessione in modo coerente rispetto alle trasformazioni urbane, il settore privato fatica a trovare motivi adeguati d’investimento; così, le già rare gare per l’assegnazione degli immobili vanno spesso deserte. Le funzioni che si vorrebbero localizzare sono ordinarie o fuori mercato per certi contesti (residenze o alberghi di lusso). Oppure si tende a scaricare i costi futuri di gestione sul settore pubblico: quando i vincoli delle Soprintendenze sono troppo stringenti, gli immobili sono destinati a funzioni culturali a volte generiche, oppure le aree poco valorizzabili sono destinate a parco, senza una programmazione urbanistica e gestionale sostenibile.
Evidentemente non si tratta solo di problemi legati al rallentamento congiunturale del mercato immobiliare, ma di attese eccessive rispetto alla capacità progettuale privata e alla possibilità di generare un’offerta solvibile per immobili problematici. Si tratta infatti di approcci diversi rispetto, ad esempio, all’alienazione delle case popolari o alle cartolarizzazioni degli immobili degli enti previdenziali, che peraltro non hanno generato benefici pubblici rilevanti.
Certamente valorizzazione e riuso degli immobili militari sono una grande opportunità di sviluppo, ma nel quadro normativo e politico attuale anche le amministrazioni locali più competenti e virtuose non sono in grado di operare. Forse non servono ulteriori norme, né aggiustamenti locali in prospettiva federalista, ma una chiara strategia nazionale che scelga tra le procedure e le agenzie competenti. È irragionevole attendere che un processo tanto difficile e incerto possa generare risorse per ridurre sostanzialmente il debito pubblico; né in queste condizioni si può credere che il federalismo demaniale possa sostenere nel lungo periodo i bilanci di municipalità medie e piccole con limitate competenze finanziarie e urbanistiche, che rischiano al contrario di aumentare debiti futuri per assicurarsi piccole operazioni immobiliari e qualche risorsa nell’immediato. Anche le città più competitive non sono esenti da gravi rischi di fronte all’incertezza di queste opportunità e di una potenziale sovra-offerta d’immobili da convertire, ammesso che riesca a procedere tra vecchi programmi, nuovi federalismi e tendenze alla ricentralizzazione.
Quantomeno sarebbe utile sperimentare a livello locale e regionale, anche sulla base della normativa vigente, meccanismi di generazione, captazione e reinvestimento a fini pubblici del valore aggiunto derivato dalla valorizzazione. L’uso degli immobili potrebbe coinvolgere non solo imprenditori privati ma anche il settore no profit e la società civile. Si potrebbero inoltre prevedere usi temporanei degli immobili ex militari, in modo anticipatore o complementare rispetto alla valorizzazione. Ma di tutto questo non si parla, né nel Decreto sviluppo né in un dibattito pubblico che resta spesso ideologico.

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Last modified: 10 Luglio 2015