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Università e professione

Da cinque anni gli atenei italiani sono impegnati nella revisione dei propri regolamenti, a seguito delle disposizioni del dm 270/2004. Tra gli adempimenti previsti c’è anche l’adeguamento dei percorsi didattici alle modifiche delle classi dei corsi di studio.
Una materia delicatissima, perché investe la formazione e gli sbocchi professionali di tutte le facoltà e che può avere effetti benefici o peggiorativi soprattutto in un ambito come quello degli architetti, oppresso, come ben sanno gli Ordini italiani, da un abnorme numero di iscritti, ormai senza quasi più prospettive di lavoro – soprattutto per i giovani – e necessitante di indilazionabili adeguamenti alle continue evoluzioni delle discipline e delle conoscenze proprie di un architetto.
In particolare, il comma 4 dell’art. 11 del citato decreto impone alle università di sottoporre alla consultazione delle organizzazioni professionali le loro determinazioni, con specifico riferimento «… alla valutazione dei fabbisogni formativi e degli sbocchi professionali …».
È un’occasione da non perdere e non bisogna che gli Ordini si trovino impreparati e con opinioni e valutazioni divergenti: e ciò rende necessario, tenendo conto che il lavoro degli atenei sta giungendo a conclusione e che molti si stanno apprestando a varare la riforma dei propri regolamenti, trattare l’argomento con estrema urgenza.
Se è vero quanto traspare dal dibattito in corso negli atenei, resta infatti inspiegabile perché – e veramente occorre parlarne senza reticenze – si continui a fare riferimento all’attuale ordinamento per costruire nuovi percorsi formativi, quando è opinione diffusa, a partire dalle organizzazioni professionali, che non abbia portato alcun beneficio, almeno per quanto riguarda preparazione e sbocchi professionali degli architetti: al punto che molti più o meno sommessamente auspicano che il prossimo passo ministeriale sia di smantellarlo.
Il riferimento esplicito è al 3+2, considerato inutile, costoso se non fallimentare, soprattutto guardando alla realtà professionale italiana, che è tutt’altra cosa rispetto al resto dell’Europa. A maggior ragione se si intende insistere sull’obiettivo del mantenimento degli attuali (eccessivi e non giustificati) livelli di accesso alle facoltà di Architettura, che in tal modo diventeranno sempre di più non professionalizzanti e di parcheggio, in attesa che sia «il mercato» a fare giustizia di tanti velleitarismi formativi.
Analogamente, occorre domandarsi se il nostro modello, che porta a individuare quattro diverse figure professionali facenti capo all’architettura, sia coerente con i reali mestieri dell’architetto, affermati in Italia e presenti in Europa. Non pare sia così e, soprattutto per quanto riguarda l’Italia, due di essi sono del tutto marginali: quello del conservatore, che non ha neppure uno spazio di esercizio professionale riconosciuto, e quello del paesaggista, soverchiato dall’architetto «generalista» per la sua indiscussa riconoscibilità e adattabilità.
Per dare risalto, autorevolezza e soprattutto reali prospettive di lavoro a tutte e quattro le figure, occorrerebbe un passo preliminare che purtroppo nessun governo ha mai voluto fare prima (perché coinvolgerebbe le tante altre figure minori che accampano diritti progettuali, dai geometri agli agronomi): circoscrivere per legge gli ambiti di competenza di ciascuna di esse. Senza questi provvedimenti tutte le aspirazioni a razionalizzare la formazione delle facoltà di Architettura risulteranno vane.
Ciò non toglie che delle restanti figure professionali, nuove o tradizionali, occorra ridefinire i profili, per dare loro nuova consistenza o radicarne le specificità (i pianificatori) in un paese che ne ha per lunghissimo tempo fatto a meno. Da ciò deriva anche la necessità di rapportare la «produzione» di progettisti ai fabbisogni. Il Cresme, l’anno scorso, ci ha dato un quadro impressionante delle linee evolutive del settore della progettazione, che risulta in assoluta distonia con la visione che se ne ha in Italia, tutta improntata all’esibizione di grandi numeri di laureati, senza alcuna verifica del loro reale accoglimento nel mercato.
C’è invece da temere che il mondo accademico sia tentato di salvare il salvabile, portando a compimento una riforma interna improntata al principio della conservazione e all’innovazione. Che altro dire, infatti, dei tentativi di dare una nuova vita a corsi di laurea senza sbocchi, o negletti, o improvvisati, nati in località sprovviste dei requisiti minimi per offrire i servizi alla cultura necessari? Ed ecco rinascere, con titolazioni di fantasia (ma prudentemente collocati nell’alveo della rassicurante architettura «generalista»), percorsi formativi che resteranno poi del tutto indistinguibili, una volta che i laureati si iscriveranno come architetti tout court nell’albo professionale.
Non sarebbe meglio utilizzare le consistenti risorse umane che si sono chiamate a operare nelle facoltà ad assecondare le esigenze dell’inutile doppio livello di laurea per coprire i tanti buchi che i tagli ministeriali stanno aprendo nelle discipline fondamentali? Quelle stesse che si richiamano alla direttiva europea, da cui discende la nostra possibilità di continuare a essere considerati architetti «europei».

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Last modified: 17 Luglio 2015