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Emanuele PiccardoWritten by: Reviews

Fontana, la riproduzione che si fa opera

La mostra «Lucio Fontana Ambienti/Environments» ripropone i famosi allestimenti realizzati dall’artista tra 1949 e 1968. A Milano presso l’Hangar Bicocca fino al 25 febbraio

 

MILANO. Environment in inglese significa ambiente ma in ambito artistico è considerato uno spazio tridimensionale, fisico, che accoglie un’azione che a sua volta prende il nome di happening. L’happening si svolge attraverso un programma di azioni “progettate” dall’artista ed è erede del teatro delle avanguardie dadaiste, del futurismo e del teatro totale di Walter Gropius. Non si può quindi affermare che Lucio Fontana o Allan Kaprow siano stati gli inventori dell’environment. Entrambi hanno realizzato ambienti diversi, nel senso di divergenti, con approcci e modalità che mirano a riconfigurare uno spazio esistente attraverso i loro linguaggi.

«Lucio Fontana Ambienti/Environments» è il titolo della mostra a cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolì in corso all’Hangar Bicocca, laddove si producevano le locomotive Breda. Lo spazio industriale completamente buio viene illuminato dai box all’interno dei quali sono stati ricostruiti gli ambienti realizzati da Fontana dal 1949 al 1968, per gallerie e musei. Il visitatore viene subito abbagliato dal sinuoso quanto caotico intreccio di neon bianchi che riproducono in scala 1:1 la Struttura al neon per la IX Triennale di Milano del 1951, collocata originariamente nello scalone d’onore. Qui riprodotto accanto ad un pilastro di acciaio che ne accentua la potenza espressiva. Una percezione molto diversa dalla riproduzione, in dimensioni ridotte, installata al Museo del Novecento da Italo Rota all’epoca diretto proprio da Pugliese. Se analizziamo con attenzione le riproduzioni degli ambienti non possiamo non notare come Fontana usi la tecnologia del neon e delle lampade fluorescenti per cambiare la percezione dello spazio di una galleria che spesso coincide con una stanza. È il caso dell’Ambiente spaziale e luce nera (1948-1949) alla Galleria al Naviglio di Milano (5 -11 febbraio 1949). Questo concetto di “ambiente” non trova corrispondenze teoriche con gli “ambienti” che l’artista americano Allan Kaprow realizza a New York nel 1958. Eppure in una recente intervista a Lucia Tozzi, Pugliese dichiara: «Quando ho studiato tutte le bozze del libro di Kaprow (Assemblages, Environments and Happenings) al Getty, per vedere se ci fosse qualche cenno poi rimosso, ho trovato una frase che probabilmente è una frecciata diretta a lui (Fontana), che suonava pressappoco così: “Uno può anche fare un taglio o un buco, appenderlo a una parete e illudersi che quello sia uno sfondamento della terza dimensione, ma lo spazio reale è un’altra cosa”. Una vera e propria omissione dell’Ambiente a luce nera del ’49».

La questione non riguarda chi abbia fatto prima un environment, bensì se quelli di Fontana possano essere considerati tali se confrontati con quelli sviluppati negli anni seguenti, in particolare rispetto a Kaprow. L’artista americano, nato ad Atlantic City nel 1927, si forma come pittore e teorico dell’happening a partire dal 1958, quando mette in scena alla Reuben Gallery di New York 18 Happenings in Six Parts. Mentre Fontana, nato a Rosario (Argentina) nel 1899, si forma come scultore e pittore, e appartiene ad una generazione diversa che aveva nella pittura e nella scultura il fine delle proprie ricerche. Indubbiamente i tagli della tela operati da Fontana rompono lo spazio bidimensionale del quadro ed entrano nella terza dimensione ma, vista dalla prospettiva di Kaprow, la vera rottura dello spazio è il passaggio dal quadro all’environment, concepito come uno spazio tridimensionale, una sorta di stanza al cui interno i performer generano l’happening seguendo un programma scritto prestabilito, con lo scopo di spaesare il pubblico. Dunque l’ambiente viene decostruito attraverso il rapporto tra spazio-performer-spettatore. In Fontana si assiste invece ad un rapporto tra spazio e spettatore: è lo spettatore che si muove nello spazio e lo percepisce in maniera differente a seconda della luce fluorescente o neon. Mentre in Kaprow abbiamo una complessità concettuale che coinvolge più soggetti in uno spazio con una dimensione collettiva tipica del periodo, in Fontana si ha una dimensione più intima e rarefatta.

Quello che stupisce in Fontana è la semplicità degli elementi necessari a definire lo spazio: quattro muri, una vernice fluorescente e lo spazio cambia percezione e uso; una modalità da cui gli architetti dovrebbero imparare nel progetto degli interni. Allo stesso modo, la luce artificiale prodotta dai neon determina un abbagliamento che lo rende più vicino a Doug Wheeler piuttosto che al concetto di environment espresso e praticato da Kaprow.

Tuttavia, rimangono alcune perplessità sul display scelto dai curatori e sulla necessità di riprodurre le opere di un artista seguendo le sue istruzioni, fuori dal contesto originario. Non è una questione che riguarda solo questa mostra, bensì altre situazioni dove si ricostruiscono gli ambienti: dagli igloo di Mario Merz fino ai lavori di Gianni Colombo o alle pareti disegnate al tratto da Sol Lewitt. Questo avviene quando gli artisti non sono più viventi e il curatore si sostituisce all’artista nell’installare la riproduzione nello spazio. Allora forse sarebbe più onesto intellettualmente dichiarare che si tratta di mostre documentarie, dove l’autorialità dell’artista non si manifesta direttamente ma tramite l’artefatto della riproduzione. Usare le fotografie, i filmati storici, gli scritti dell’artista è un’operazione culturale interessante che consente di costruire relazioni tra l’artista e il suo tempo, piuttosto che ricostruire oggi un ambiente realizzato cinquant’anni fa, anche se andato distrutto. È come se si perdesse il senso originale del progetto, nato per per uno spazio e una situazione culturale specifica. Allora come può essere considerato originale un ambiente spaziale ricostruito? In questo modo si perde l’occasione di mostrare tutto il lavoro di ricerca e di analisi delle opere di Fontana fatto dalle curatrici Pugliese e Ferriani, senza il quale gli ambienti non si sarebbero potuti realizzare con maniacale verosimiglianza. D’altronde non siamo in un museo ma in uno spazio privato di una multinazionale, la Pirelli: il mercato impone di mostrare l’opera e non il processo di conoscenza del linguaggio di Fontana.

Il pubblico apprezza, dunque il progetto è riuscito. Ma si é fornito il pubblico degli strumenti per comprendere il significato delle opere di Fontana? Sarebbe necessaria una profonda riflessione su simili modalità espositive, soprattutto in relazione alla formazione di una cultura contemporanea diffusa.

Lucio Fontana
Ambienti/Environments

Pirelli HangarBicocca, 21 Settembre 2017 – 25 Febbraio 2018
A cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolí
In collaborazione con Fondazione Lucio Fontana

Autore

  • Emanuele Piccardo

    Architetto, critico di architettura, fotografo, dirige la webzine archphoto.it e la sua versione cartacea «archphoto2.0». Si è occupato di architettura radicale dal 2005 con libri e conferenze. Nel 2012 cura la mostra "Radical City" all'Archivio di Stato di Torino. Nel 2013, insieme ad Amit Wolf, vince il Grant della Graham Foundation per il progetto “Beyond Environment”. Nel 2015 vince la Autry Scholar Fellowship per la ricerca “Living the frontier” sulla frontiera storica americana. Nel 2017 è membro del comitato scientifico della mostra "Sottsass Oltre il design" allo CSAC di Parma. Nel 2019 cura la mostra "Paolo Soleri. From Torino to the desert", per celebrare il centenario dell'architetto torinese, nell'ambito di Torino Stratosferica-Utopian Hours. Dal 2015 studia l'opera di Giancarlo De Carlo, celebrata nel libro "Giancarlo De Carlo: l'architetto di Urbino"

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Last modified: 5 Febbraio 2018