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Vincenzo LatinaWritten by: Forum

Terremoto: bisogna rigenerare le nostre città

Secondo Vincenzo Latina, la ricostruzione dovrebbe procedere riprendendo il processo di rigerenazione urbana, senza ricette speciali, prototipi e “dieci comandamenti” da applicare in modo esteso. Perché In Italia si corre il rischio di conservare tutto per il timore o la manifesta incapacità d’interpretare la città storica

 

Il recente terremoto di Amatrice ha innescato un ampio e interessante dibattito sulle modalità di costruzione e ricostruzione delle città distrutte dal sisma e sui protocolli da attuare per la messa in sicurezza delle popolazioni, delle città e del patrimonio edilizio.

Sono state evidenziate due tendenze. Una “eterodossa” che formula l’ipotesi della nuova ricostruzione in aree diverse da quelle danneggiate dal sisma (ad esempio la virtuosa ricostruzione delle città barocche del Val di Noto distrutte nel 1693 e ricostruite su altre aree); in altre parole, il terremoto come “occasione” di riscatto e sperimentazione. Tuttavia, la tendenza che va più accreditandosi, sospinta anche dall’onda emotiva post sisma, è quella dei cosiddetti “ortodossi”, di chi perora la causa del “dov’era e com’era”. All’interno di tale dibattito è intervenuto Renzo Piano il quale, nella veste di senatore a vita e celebre architetto, ha proposto al Senato della Repubblica il suo progetto: un impegno diretto per la ricostruzione delle città danneggiate e per la messa in sicurezza del patrimonio edilizio italiano. Un intervento di lungo respiro che nei prossimi 50 anni potrebbe interessare 10 milioni di case. Le soluzioni a suo avviso sono: l’utilizzo della diagnostica avanzata e cantieri leggeri per la realizzazione di 10 prototipi per la ricostruzione e la messa in sicurezza del parco edilizio.

La ricostruzione delle città terremotate dovrebbe richiedere progetti che riescano ad impiegare al meglio le risorse per una migliore gestione dei flussi economici; per costruire, nella discontinuità del nuovo, una connessione tra quello che resta dell’antico – dell’esistente – e il contemporaneo. Lontano dalle emulazioni (del “dov’era e com’era”), dalle restituzioni retoriche o dalle repentine e fuggevoli mode della sperimentazione spettacolare.

Certo, l’antico o meglio l’idea della ricostruzione dell’esistente distrutto dal terremoto (quello del “dov’era e com’era”) crea facile consenso; il nuovo e il contemporaneo, invece, molto spesso causano discordia, inquietano e pongono interrogativi. In sostanza, se il “dov’era e com’era” rassicura o, meglio, rasserena nell’evocazione d’improbabili evasioni nostalgiche, il nuovo a sua volta può generare ansia e determinare dei rischi; in quanto ciò che è nuovo, che si tratti di arte, letteratura, architettura o paesaggio rappresenta e rispecchia la società, ne è in un certo senso un’immagine, e data l’imprevedibilità della nostra società attuale, questo ‘nuovo’ può generare inquietudine.

Il degrado fisico e la conseguente vulnerabilità dei centri urbani e del consolidato patrimonio architettonico italiano sono stati anche in parte favoriti da una lettura parziale della città: quella che l’ha suddivisa per parti, ovvero la zonizzazione. Tale approccio è stato una vera calamità. Ha reso i centri storici e quelli consolidati di pregio architettonico-storico-ambientale, come ideali luoghi delle restituzioni retoriche del maquillage urbano.

In Italia si corre il rischio di conservare di tutto con grave eccesso, per il timore o la manifesta incapacità d’interpretare la mutevolezza dell’esistente e in particolar modo della città storica. In periodi molto lunghi un simile approccio, oltre ad aumentare la vulnerabilità fisica degli edifici, può snaturare la sedimentazione di culture diverse, che è il principio della sopravvivenza dei centri storici.

La principale attenzione va rivolta alle generatrici del palinsesto della città storica, che è una successione stratificata di fatti urbani discontinui. Quello che a prima vista può sembrare un unicum, in realtà è una sequenza di “fratture” e “assestamenti”: un continuo “bradisismo”. Tra le “faglie” urbane è possibile ripercorrere alcune straordinarie, quanto mai alterne, vicende degli eventi umani, secondo un susseguirsi millenario di guerre, carestie, cataclismi e rinascite.

Il progetto architettonico contemporaneo e il disegno urbano, quindi, possono dare una risposta anche alle continue richieste di recupero della città consolidata e della ricostruzione dei centri terremotati. Tali interventi, purché non imitativi, possono insinuarsi nelle “pieghe” dei resti della città, nei resti della struttura urbana e riproporre la naturale rigenerazione della città. Per cui la riconfigurazione spaziale di alcuni isolati storici può prevedere interventi di “restauro” che comportino le demolizioni, le integrazioni o anche addizioni puntuali di edifici o brani di città. Rinnovare i tessuti urbani con la demolizione, d’altronde, non è soltanto “liberare” o “togliere”. “Una demolizione abile riesce a dare valore e presenza anche attraverso la mancanza. Con la demolizione “mirata”, con l’atto dello scavo, del togliere, si riesce a interpretare uno spazio urbano e dargli una nuova configurazione. Demolire è anche recuperare, a volte la miglior forma di conservazione è la trasformazione puntuale. Negli interventi all’interno di realtà consolidate non esistono ricette precostituite. La specificità dei luoghi e degli edifici è fondamentale per optare o meglio integrare diverse filosofie d’intervento”.

È dannoso ed errato ipotizzare interventi estremi nei centri storici e nella città consolidata. I radicalismi – sia quelli restrittivi e conservativi dei cosiddetti “religiosi” sia quelli contrapposti degli “atei” che sostengono le prerogative di una innovazione radicale della città – provocano complessivamente gravi contrasti e immobilismi.

Gli interventi nelle città consolidate richiedono grande competenza ed equilibrio perché il confine tra demolizione, ristrutturazione, innovazione e restauro è veramente labile. Così facendo si potrà migliorare, anche con finalità antisismiche, il patrimonio edilizio e quello architettonico italiano. Senza ricette speciali e prototipi da generalizzare, senza “dieci comandamenti” da applicare in modo esteso e uniforme alle molteplici peculiarità. Serviranno interventi di recupero “in laparoscopia”, nei casi acclarati. Per il resto è necessario riprendere la rigenerazione delle città, il rinnovamento dei tessuti urbani e, di conseguenza, il miglioramento strutturale, lontano da leggi eccezionali e da ricette miracolose da somministrare diffusamente.

 

 

Autore

  • Vincenzo Latina

    Vincenzo Latina nel 1989 si laurea in Architettura allo IUAV di Venezia. È professore di Composizione Architettonica presso l'Università degli Studi di Catania; è stato docente presso la Scuola di Architettura di Mendrisio, Università della Svizzera italiana. Ha redatto numerose pubblicazioni, tenuto lecture ed esposto le sue opere in varie mostre d'architettura nazionali e internazionali. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra questi: 2020, Premio Città del Dialogo per il progetto di “Risanamento e restauro ambientale della ex Cava di Lampedusa”; 2015, il Premio “Architetto Italiano 2015” promosso dal Consiglio Nazionale degli Architetti; 2013, Premio ARCH&STONE'13; “Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana 2012” della Triennale di Milano; 2008, “Premio Innovazione e Qualità Urbana”, Rimini Fiere Euro P.A. e “Premio G.B. Vaccarini”; 2006, ex-aequo il Premio Gubbio 2006; 2004, Premio Internazionale Dedalo Minosse, under 40; 2003, “Premio Il Principe e l’Architetto” e “Premio Internazionale Architetture di Pietra”.

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Last modified: 12 Ottobre 2016