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Carlo OlmoWritten by: Design

Più qualità meno estetica

«Il rapporto tra il pubblico e il mobile sta mutando; sta mutando la cultura con cui gli utenti si avvicinano all’acquisto del mobile». Potrebbe spiegarci questa sua affermazione?
Occorre introdurre la questione tramite una piccola analisi socioeconomica: nel periodo post-bellico – soprattutto negli anni sessanta – gli aumenti salariali molto al di sopra dell’inflazione hanno messo nelle mani dei consumatori un grande potere d’acquisto; questo ha portato a un’esplosione dei consumi, dettati non più dalla razionalità ma da fattori puramente emotivi. Questa situazione di costante crescita si è mantenuta fino all’inizio degli anni novanta. All’alba di una certa crisi nel settore si è innescata (dopo la Guerra del Golfo, nel 1991-92) un’altra particolare congiuntura economica: con lo svincolamento del valore del denaro dalle riserve auree, abbiamo avuto 15 anni di «finanza facile» che si sono conclusi nel 2007. L’attuale situazione di crisi ha riportato all’ordine del giorno la razionalità: l’acquirente, un tempo, guardava soprattutto all’estetica, più che alla qualità degli oggetti; l’acquisto era puramente emozionale. Oggi, i giovani sono consumatori molto più preparati: grazie non solo a una maggiore istruzione, ma anche a una migliorata diffusione dei mezzi d’informazione (dalla stampa specializzata, alla televisione, a internet), possono avvalersi di una profonda formazione estetica, ma allo stesso tempo vogliono pagare il giusto prezzo per ogni prodotto. L’incontro di questi due aspetti ha messo in crisi un sistema che negli ultimi quindici anni ha molto basato la propria produzione sull’emozione estemporanea accompagnata dal nome del grande progettista (che è diventato la star del settore dell’arredamento). Dalla mia percezione del mercato ritengo che si tratti di una fase ormai conclusa: molte aziende cominciano a parlare della «qualità del prodotto»; il cliente stesso chiede delucidazioni in merito.

A questo proposito sono interessanti i dati relativi agli accessi ai siti web…
È stata una sorpresa anche per noi. Quando sono stati introdotti i «numeri verdi», anni fa, le chiamate erano pochissime. Tramite i siti web, ogni anno, si registrano milioni di contatti reali: persone interessate a conoscere le problematiche del prodotto, della qualità e il prezzo che ne consegue. Se da un lato questi dati possono essere visti come conseguenza della comodità di poter accedere a queste informazioni direttamente da casa, e a qualunque ora, ritengo che esista anche un’altra chiave di lettura (e lo desumo dalle statistiche, essendo io in prima persona un venditore): il cliente finale non si fida più di quello che gli dicono i distributori, e vuole entrare direttamente in contatto col produttore. Quest’ultimo deve infatti rendere conto di quello che scrive, mentre il verbavolant del punto vendita non si può contestare. Chi non sente la crisi? Chi viene ritenuto credibile e affidabile. Vi sono rivenditori in Italia che stanno lavorando benissimo perché si avvalgono di un personale molto preparato, in grado di spiegare i prodotti, d’illustrarne la qualità e di proporre soluzioni.

Questo nuovo approccio modificherà il vostro rapporto con la pubblicità?

In maniera radicale. Alcuni pensano che l’attuale situazione sia solo frutto della congiuntura economica, mentre deriva anche e soprattutto dalla crisi strutturale che ha investito il settore dell’arredamento già cinque anni fa. Bisogna cambiare perché «l’emozione» non serve più. Io ritengo che la «cultura dell’apparire» sia ormai conclusa; si vedano a questo proposito la crisi dei reality show e il recentissimo insuccesso di una trasmissione come Miss Italia, che si è vista ampiamente decurtare l’originaria programmazione. E ancora le critiche agli stilisti per i prezzi dell’abbigliamento: la domanda che superava l’offerta, i «soldi facili» avevano ingenerato la convinzione che le persone non potessero fare a meno di alcuni oggetti, e che si potessero imporre prezzi totalmente arbitrari; non è più così.

Oggi, come si comunica la qualità?

Flou lo faceva già 15 anni fa (anche se successivamente ci siamo fatti un po’ «traviare»…). In una pagina mostravamo la vera e propria immagine pubblicitaria; in quella a fianco riproducevamo lo stesso modello di letto con un angolo sezionato, che lasciava vedere la struttura del sommier in listellare, il tessuto di rivestimento in puro cotone con il nostro marchio, la rete, ecc.: insomma tutti i dettagli possibili dell’oggetto. E se questo (a detta dei pubblicitari) non risultava né scenografico né troppo elegante, sicuramente soddisfaceva la sete d’informazioni del cliente. La comunicazione non avviene solo tramite la stampa, ma soprattutto attraverso i venditori – o arredatori che dir si voglia. Essi sono il nostro tramite con il cliente finale, e prima di parlare di prezzi o di sconti devono parlare di qualità. Il linguaggio della qualità deve essere trasferito loro dai contatti con il personale dell’azienda, che dev’essere conscio dell’alto livello del prodotto che contribuisce a realizzare: il loro entusiasmo costituisce la prima forma di pubblicità.

In un settore come il vostro, quanto contano la ricerca e l’innovazione del prodotto?
In passato potevano avere un’influenza variabile. Oggi, l’unico elemento che decreta la continuità del successo di un’impresa è proprio l’innovazione e non soltanto sul prodotto, ma anche sul potenziale umano, intesa come formazione continua a tutti i livelli aziendali. Questa sarà l’arma vincente che completa la strategia oltre l’innovazione di prodotto.
Sono reduce da un viaggio in Cina e ho potuto constatare quanta attenzione e quante risorse finanziarie hanno stanziato sulla ricerca e sull’innovazione, specie nel design, dove partono dalle università. Pertanto non bisogna più guardare alla Cina come al Paese che copia soltanto, poiché questo succede anche in Italia, ma come a un possibile competitor nel design, se noi gliene lasceremo lo spazio. La cosa invece estremamente importante è l’enorme potenzialità di vendita che sicuramente rappresenterà una valvola per il nostro export, in quanto, a breve, almeno il 20% della popolazione, quindi circa 250 milioni di persone, saranno clienti potenziali per i nostri prodotti.

Dunque conta il capitale umano.
Esattamente. Dico sempre che se nella mia vita ho raggiunto certi traguardi, è perché ho sempre investito nel capitale umano. Che si acquistino beni di prima necessità o di lusso, ci saranno sempre dietro persone figlie di una precisa cultura. È questa che fa la differenza fra noi italiani e gli «altri», fin dai tempi di Leonardo, Raffaello e Michelangelo: noi abbiamo la creatività nel sangue. Ed è inutile che all’estero dicano «Vogliamo fare il design come da voi»: in nessun luogo al mondo ci sono tante e tanto variegate testimonianze del genio artistico nei secoli. La creatività non si può contraffare. Sarebbe da incoscienti non far tesoro di questo nostro enorme potenziale, che però deve essere un punto di partenza per il progresso e l’innovazione.

Dal 7 al 10 ottobre sarete al Crocus Expo per la quinta edizione moscovita dei Saloni WorldWide. Come state impostando il rapporto fra un settore determinante per l’economia italiana come il vostro e il mercato estero?
Noi abbiamo chiaramente cercato di trasferire parte del nostro «saper fare» e della nostra organizzazione. Il Salone del Mobile è la prima fiera del settore al mondo. E se ha raggiunto questo traguardo è perché nei suoi quarantotto anni di vita ha sempre saputo adattarsi ai tempi, se non precorrerli. Poi, quando gli enti fieristici nel mondo sono diventati un business, la fortuna di Milano è stata la successiva aggiunta del SaloneSatellite, ereditato dai miei predecessori, cui si sono poi affiancati gli eventi culturali (ottenuti, con grandi battaglie, durante la mia presidenza). Il SaloneSatellite è un’iniziativa che coinvolge ogni anno 600 giovani designer provenienti da tutto il mondo, dando loro la possibilità di esporre le proprie opere davanti a centinaia di migliaia di visitatori, e soprattutto di mettersi in contatto con oltre 40.000 imprese con cui poter in futuro sviluppare fruttuose collaborazioni. Il Salone finisce così per svolgere un ruolo non solo economico, ma anche sociale. E soprattutto mira a chiarire un concetto: il design non è mero disegno industriale; il design è arte, e come tale ha una matrice di originalità che non può essere imitata. Per questo stiamo cercando di esportare la nostra creatività e qualità anche all’estero, raggiungendo nuove platee di compratori: al momento stiamo intensificando i rapporti con la Russia e gli Stati Uniti, ma è nostra intenzione allargarci anche alla Cina. In realtà dobbiamo proprio all’invasione dei prodotti cinesi avvenuta 12-13 anni fa il moto di rinnovamento che ha investito il nostro settore. Le parole d’ordine per espandersi nel mondo sono: innovazione stilistica, tecnologica, riorganizzazione aziendale, prezzo competitivo e grandi dimensioni. Purtroppo, in questo periodo di crisi il «piccolo e bello» non funziona più, a meno che non si parli di veri prodotti di nicchia, pezzi unici, mobili-scultura (come la cassettiera di Capellini, che non si compra certo solo per riporre le camicie).

Quali sono le prospettive del mercato russo?
Il nostro settore ha rapporti col mercato russo già da quindici anni, con incrementi annui del 22-28%, cosa che ha portato nel 2007 a un giro d’affari di un miliardo di euro. Poi è arrivata la crisi. Così, se il 2008 si è chiuso normalmente per via degli ordini già in corso, quest’anno abbiamo avuto una diminuzione delle esportazioni del 40-50%. Penso però che già nella prima metà del 2010 comincerà a muoversi qualcosa: in fin dei conti la Russia ha tutti i mezzi per ripartire. È uno dei paesi più ricchi di materie prime, dal petrolio, al gas, al legname: di quest’ultimo la Siberia è una fonte praticamente inesauribile, con un ricambio talmente veloce che – se ben sfruttato – potrebbe porre fine all’annoso problema della deforestazione dell’Amazzonia.

Lei ha parlato di ambiente: uno dei leit motiv del momento è la green economy. Ritiene che i vostri prodotti possano rientrare in questa nuova dimensione della sostenibilità?
Vi rientrano già da molto tempo. L’attenzione per i materiali c’è sempre stata, e ci siamo sempre piccati di utilizzare materie prime naturali: semplicemente la cosa non veniva pubblicizzata, in quanto venivano ritenute più «interessanti» altre caratteristiche del prodotto. Poi ci sono stati paesi come la Russia e il Giappone, che hanno iniziato a chiedere certificazioni specifiche (come la Iso 14001), e la cosa è assurta agli onori delle cronache.

Quali sono le prospettive future dell’industria del mobile italiana?
Veniamo da una catastrofe finanziaria di proporzioni gigantesche. Anche stavolta, però, saremo in grado di rimetterci in piedi: le potenzialità sono enormi. Bisogna tuttavia essere coscienti del fatto che il sistema che avevamo prima non può più funzionare. Occorre viaggiare, informarsi, innovarsi, senza dimenticare il nostro know-how e la reputazione del made in Italy nel mondo, che sono i nostri veri punti di forza. La Cina è all’avanguardia negli investimenti in tecnologie e innovazione e sta raggiungendo importanti livelli considerando la notevole disponibilità di risorse finanziarie. Certamente dispone di un vantaggio, in quanto non parte da zero, ma dal punto di arrivo della nostra esperienza. A Shanghai per l’Expo sono stati costruiti degli enormi centri di ricerca per il design e l’innovazione, in collaborazione con l’università: dovremmo fare lo stesso e muoverci per tempo in vista dell’Expo di Milano 2015. Pensare di appaltare le opere nel 2011 e di completarle in tempo è eccessivamente ottimistico. In Cina si sono mossi con largo anticipo.

Come da lei evidenziato, la Cina – assieme a Francia, Corea e molte altre nazioni – sta accentuando questo rapporto tra le imprese e la ricerca universitaria: la vostra associazione pensa di muoversi in questa direzione?
Noi l’abbiamo sempre perseguita. Collaboriamo già con molti enti universitari, anche se a volte incontriamo la resistenza di qualche azienda nel far visitare lo stabilimento agli studenti: questo è un grave errore. L’esperienza diretta sul campo ci fornisce laureati in grado d’inserirsi immediatamente nelle dinamiche aziendali, cosa che non avveniva quando i programmi si limitavano a studi puramente teorici. Ormai sono le università stesse a chiedere la nostra collaborazione, non solo in Italia, ma anche all’estero.

Autore

  • Carlo Olmo

    Nato a Canale (Cuneo) nel 1944, è storico dell'architettura e della città contemporanee. E' stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino dal 2000 al 2007, dove ha svolto attività didattica dal 1972. Ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in altre università straniere. Autore di numerosi saggi e testi, ha curato la pubblicazione del "Dizionario dell'architettura del XX secolo" (Allemandi/Treccani, 1993-2003) e nel 2002 ha fondato «Il Giornale dell'Architettura», che ha diretto fino al 2014. Tra i suoi principali testi: "Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau»" (Einaudi, 1975; con R. Gabetti), "La città industriale: protagonisti e scenari" (Einaudi, 1980), "Alle radici dell'architettura contemporanea" (Einaudi, 1989; con R. Gabetti), "Le esposizioni universali" (Allemandi, 1990; con L. Aimone), "La città e le sue storie" (Einaudi, 1995; con B. Lepetit), "Architettura e Novecento" (Donzelli, 2010), "Architettura e storia" (Donzelli, 2013), "La Villa Savoye. Icona, rovina, restauro" (Donzelli, 2016; con S. Caccia), "Città e democrazia" (Donzelli, 2018), "Progetto e racconto" (Donzelli, 2020)

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Last modified: 17 Luglio 2015